venerdì 8 dicembre 2023

"Dolce per sé è il ricordo"

 


"Dolce per sé è il ricordo..."

 

E' ancora là la casetta piccola, a due piani, dipinta di calce bianca con striature ingrigite dal tempo. L'abbiamo messo in vendita. E' in vendita già da alcuni anni ma non l'acquista nessuno. E' la casa dei miei genitori. Sta in una vaneddra, una viuzza come ce ne sono tante, nel mio piccolo paese, in un quartiere cui, non ho mai saputo perché, fu dato il nome di Tripoli. Ma fu un nome profetico perché il trascorrere fatidico del tempo restituisce ora il senso a quel nome. Tanti magrehebini lo abitano adesso senza che la loro lingua si distingua dalla parlata della gente di là. Stessi suoni gutturali, stessa modulazione vocale, stesse parole, a volte. La lingua siciliana ha tante inflessioni arabe e, se udita a distanza, sfuma e si confonde con questa e questa con quella. Da tempo le inflessioni amalgamano quella gente in un'unica popolazione, senza differenze se non nei nomi.

 In questo posto io ci sono nata.

La mia casa si apriva alla strada e quasi proseguiva in essa. La strada un tempo, nel mio tempo d'infanzia, non era un luogo diverso. Era la casa stessa, era la mia casa all'aperto. Non un giardino, non un cortile, ma proprio la casa stessa -  priva del tetto- dove si andava, noi bambini a continuare la nostra vita di dentro. Il fuori era sinonimo stesso della casa, e indicava il suo luogo più fresco, quando d'estate c'era un gran caldo e tutti non potevamo stare nel chiuso delle mura, dove non era neppure pensabile un gioco di movimento per me e i miei fratelli, noi che eravamo, a turni intercambiabili, ora gli yankee ora gli indiani e ci rincorrevamo e ci lanciavamo i sassi col tirapietre.  La strada era la nostra casa anche d'inverno, nei caldi inverni siciliani, con le lame di luce nei gialli muri di tufo che a Natale ci facevano gustare l'effetto dell'affabulazione collettiva all'aperto con distribuzione di fette di limone col sale, in un giro di ragazzine vocianti e di madri affacciate all'uscio.

C'era in quella casa un terrazzo con le tegole del tetto consunte per i troppi anni e ricoperte, a dicembre, da un fitto spessore di muschio. Quello era il muschio di Natale per me che andavo a sollevarlo, attaccato com'era fortemente alla creta, con la lama di un coltello.  Ce n'era tanto. Insieme ai miei fratelli lo sdradicavo quasi tutto. E dopo averlo fatto essiccare un po' al sole, tutto quel muschio diventava il tappeto erboso del nostro presepio. Andavamo poi alla ricerca di pezzi di sughero, più difficili da trovare. Ma l'effetto finale era bello: tutto quel sughero addossato alla parete della nostra sala da pranzo diventava: case, stalle, botteghe dell'arrotino e del pescivendolo, piccole casette dento le quali stavano a filare le figurine femminili del presepe e il ciabattino con il martello  e la scarpa in mano. E le stradine di piccola ghiaia dove, vicino alla grotta si collocava "u spavintatu ru prisepiu" un pastorello con le braccia e le mani alzate in atteggiamento di grande meraviglia per l'evento della nascita del Bambino. Molto più difficile diventava la collocazione delle luci. Piccole lucine tutte colorate che dovevano andare ciascuna dentro ogni anfratto di sughero o dentro ogni casetta. Era lì che scatenavano le sciarre: c'era sempre chi tra noi pestava il filo o non riusciva a districarlo o rompeva le lucine. Allora erano sequele di urla dei più grandi e qualche scappellotto volava a filo di testa.

Persino l'acqua, quella vera, mettevamo dentro una piccola vasca camuffata tutt'intorno dal provvidenziale muschio. Acqua che spesso faceva saltare la corrente avvolgendo nel buio più completo quel piccolo paesaggio, magari nel bel mezzo del pranzo di Natale.

Il pranzo non era quel trionfo di gola che oggi affolla ogni tavola. C'erano gli anelletti col sugo di carne e piselli, la pasta della festa, e i brocioloni ripieni di pangrattato, uvetta e pinoli. Ma il segno distintivo della festa c'era sempre: cannoli e buccellati. In tutte le tavole c'erano.

E quella nostra piccola casa ci conteneva tutti, nonni, mamme, padri, zii e cugini, in un vociare festoso e assordante al quale nessuno si sottraeva. La festa era: stare tutti insieme nella casa piccola che spesso si allargava nella strada. Bastava solo aprire la porta. E se qualche vicino passava, pure lui era invitato a partecipare, a mangiare e a giocare con noi. La nostra piccola casa aveva, nel piano superiore, due piccole camere da letto con il soffitto dove un qualche imbianchino con vocazione d'artista aveva trovato il modo di dare un saggio della sua maestrìa: un dipinto con scene campestri e tralci di edera. E persino una casa di campagna con tanti alberi e tanto verde intorno, dove io mi rifugiavo immaginandomi avventure regali di principesse e principi, di re e di regine. Quella era la casa dei miei sogni, la casa che abitavo ogni notte, dove tra fughe di stanze e vasi di fiori c'era una stanza tutta per me con le tende bianche alla finestra e un letto a baldacchino dove io dormivo da sola senza il fastidio dei fratelli e di mia madre che mi costringeva alle faccende di casa. Cosa che odiavo di più al mondo: non riuscivo a capire perché mai solo io, dei quattro figli che eravamo, dovevo aiutare la mamma a pulire, rigovernare, lavare i pavimenti e rifare i letti. Ecco, io questa cosa qui non la volevo fare. Io volevo leggere e guardare la parete dipinta e immaginarmi principessa in mezzo alle mie stanze. Ero strenuamente sorda ad ogni rimprovero e la mia resistenza aveva quasi sempre la meglio.

Era in questa casa che noi bambini aspettavamo a lungo, nei pomeriggi delle domeniche estive, mio padre che ci prometteva di portarci al mare. Noi lo aspettavamo, ma quando la luce del sole lasciava la mano alla azzurra penombra della sera, perdevamo le speranze e uscivamo a giocare in strada con gli amici. Quelle delusioni preludevano ai pianti e mia madre, infastidita dalle proteste nostre e dall'assenza del marito, sfogava spesso il suo malcontento facendoci rientrare alla svelta e sbarrandoci l'accesso alla strada con il chiavistello. Spesso cenavamo senza di lui, spesso andavamo a letto senza vederlo né salutarlo. Ma tardi, ancora sveglia, mi riusciva di sentire i passi pesanti di mio padre che rincasava a notte fonda e qualche strillo di mia madre che si lagnava di aver dovuto, la sera della festa, cenare da sola con i bambini. Non erano assenze colpevoli. Erano assenze necessarie. Lui, mio padre, il suo lavoro lo cercava così, nella piazza del paese, nella banchina. La banchina era luogo d'ingaggio e piazza di scambi, sito privilegiato delle transazioni ma pure del libero ritrovo tra   uomini. Le donne non vi avevano accesso. Solo i maschi potevano esercitare questo loro diritto tacitamente riconosciuto. Anche le bambine non potevano frequentarlo, se non accompagnate dal genitore. Lui, mio padre, mi portava qualche volta con sé. Ed io riverberavo l'orgoglio dell'accesso in quel luogo a me proibito, se sola. C'era un caffè, poco più di un chiosco coperto in realtà, dove gli uomini andavano a bere e a giocare a carte. Il bancone aveva una vetrina ricoperta di dolciumi che variavano ad ogni stagione: cannoli, pasticciotti, iris con crema di ricotta, cartocci pieni di crema, d'inverno; frutti di martorana, dolcetti biscottati all'anice, pupi di zucchero per la festa dei morti in autunno; gelati di tutte le specie in primavera e in estate. Ognuno per una festa. Ognuno col suo turno di apparizione. Mi incantavo a guardare. Mio padre col suo sorriso appena abbozzato mi lanciava uno sguardo d'intesa e faceva materializzare nelle mie mani almeno uno di quei meravigliosi dolci.

E così, nelle mie sere di festa, quando lui non tornava a casa a saldare la promessa di una passeggiata, me ne andavo a letto delusa, ma non sconfitta. La mattina dopo, quando mi alzavo per andare a scuola, - mio padre era già andato via da alcune ore- lo cercavo  e non lo trovavo più in casa. Ma sul grigio marmo del comò della sua camera da letto c'era sempre un pasticciotto per me.

 


martedì 20 dicembre 2022

Recensioni sul romanzo di Maria Rosa Giannalia " D'oro e di cemento" ed. Amicolibro Cagliari ottobre 2022

 


Recensione di Bianca Mannu


D’oro e di cemento: titolo icastico e bellissimo perché sintesi granitica del romanzo di Maria Rosa Giannalia , nel suo riferimento veritiero alla vicenda storica e sociale che ha interessato la Sicilia occidentale nella seconda metà del Novecento. Anche solo per questo, il romanzo si staglia come opera di realismo letterario, senza farsi cronaca o indulgere alla coreografia poliziesca, invalsa in opere di genere.

Il tessuto narrativo si snoda coniugando l’uso perfetto dell’italiano con il sottofondo melodico e iterativo del siciliano, anche al netto dei richiami dialettali che connotano specificatamente, prima  gli anni immaturi,  poi i momenti psicologici e le temperie umorali giovanili, e, dopo ancora, i discorsi interiori e l’interlocuzione, viepiù distante e critica, del protagonista narratore con il suo mentore (il “parrino” Michele) e infine quella con il giudice istruttore (presenza assente, come un Dio senza deità).

Lo stile narrativo, davvero particolare e significativo, si fa mondo e risuona  come una musica che si articoli su tonalità diverse  e variazioni a strappi, ottenuti dall’emersione brusca di motti e proverbi dialettali, punti sintomatici del granitico legame etico culturale limitato e denso di ambiguità , cui  Mimmino è costretto ad appoggiarsi  non avendo potuto beneficiare di modelli culturali di confronto prima e fuori dal suo precoce ingaggio nel mestiere.  Su quel magro sostrato   va  a stagliarsi il conflitto interiore del protagonista alle prese con le istanze educative primigenie credule e gli effetti  ambivalenti, tra fascinazione e coercizione, del mondo fisicamente incombente, reale e ambiguo.

Un altro elemento strutturale e di notevole efficacia realistica è la considerevole competenza e disinvoltura con cui l’Autrice entra e ci conduce nel cerchio professionale  di Michele e del giovanissimo Mimmino. Forte di questa conoscenza (quasi diretta), Giannalia rende linguisticamente palpabile (senza mai indurre alla noia) la ratio edile dentro la vita del protagonista, raccontando come  ne diriga i sogni, ne motivi le fatiche, ne giustifichi le scelte “amicali” e i cogenti legami d’interesse e fedeltà al gruppo e ai capi, insieme con l’accoglimento  dei rischi immediati e possibili, peraltro pensati come controllabili ad libitum, per via della divisione dei compiti operativi nell’ambito della cosca stessa, come l’Autrice sottolinea.

  In effetti è  proprio la forma mentis acquisita tramite la pratica edile  e il caotico portato culturale di riferimento (ostaggio di parecchie confusioni concettuali, come quella  tra timidità caratteriale di una persona e la presunta mitezza/bontà, ritenuta  inossidabile perché costitutiva) a suscitare in Mimmino il progetto allettante -  da prospettare all’uomo d’onore di una cosca esistente, ma ancora di poco respiro -  circa la possibile trasformazione degli agrumeti in aree edificabili, con esiti molto remunerativa nei convincenti precalcoli.       

In effetti il romanzo, condotto in punta di una ben calibrata prosa narrativa, è il percorso di educazione e autoeducazione di Mimmino. Questi, entità umana nell’albore della vita, si presenta segnato dal sentimento d’ingenua identificazione con l’alter ego Michele, il buono . Ecco Mimmino, adolescente operaio dipendente e povero, affidato a se stesso,  ricco di desideri, sogni, e afflitto da piccole scaramucce interiori; lo ritroviamo quasi maturo, sguarnito di veri fondamenti umani, preso nei tentativi ben poco fruttuosi di corrispondere a  una ideale consistenza fondata sulla bravura professionale; eccolo ancora librarsi,  nel segno della promozione del sé e dell’ego, per proporsi a un mondo ristretto di figure dalle referenze ambigue, mettendo in gioco la sua professionalità, ma sopra tutto la sua aperta compatibilità morale verso l’avidità altrui, peraltro paludata d’affabilità e d’intenzioni coperte, di cui già aveva indiretta esperienza; infine  eccolo disfarsi di ogni autocontrollo volitivo e  propendere per la facile accettazione della via breve delle collusioni e delle prevaricazioni, verso la scalata economica e il successo sociale.

 Come cieco e sordo, precipita nella polvere della caduta, nella irrefutabile condizione del proprio fallimento umano e della contestuale carcerazione, il carcere, sola casella sanzionatrice del suo crollo. Inizia così a guardarsi denudato di colpo, non solo imputato, ma proprio amputato dell’aureola dell’onorabilità umana e dell’amabilità familiare, per l’eternità della vita e della già iniziata nuova generazione.

Infine il maturo Mimmino si avverte privo anche del minimo desiderio di adire a una sorta di ricupero sociale mediante la dissociazione e la delazione. Il ricorso a tale pratica tribunalizia significherebbe potersi tirar fuori a buon mercato dalle responsabilità assunte con le proprie scelte e assicurarsi una sorta di sussistenza oscurata e protetta a carico della comunità sociale indistinta. Ora la sua maturazione fulminea si commisura con l’impraticabilità personale di una tale opzione: i fatti non si possono né disfare né bypassare. I fatti sono le tessere episodiche e parziali di un sistema di relazioni irriducibile alla partizione degli umani in schiera dei buoni e in quella dei cattivi, oppure nella distinzione tra chi ce l’ha fatta senza incidenti di percorso e appare a sé e a tutti come “a posto”, e chi – fallito per colpa orrenda e per ybris – non potrà mai guardarsi allo specchio o negli occhi del proprio figlio, né tollerare una specie di morte civile a stipendio garantito.  

Qui l’Autrice, nei panni interiori di Mimmino, dimostra una sottigliezza concettuale e argomentativa, che sembra lambire il margine delle teorie eticopolitiche volte alla ricerca teorica e pratica delle palingenesi umane sistemiche. L’apocalisse o la rinascita – pensa Mimmino - o è per tutti  o non è, poiché le “verità” parziali sono farsa, accomodamenti vani, incapaci di sradicare i mali sociali e di bonificare profondamente le coscienze individuali; meno che mai quelle che sono rimaste consapevolmente invischiate per ignoranza, avidità e senso di prepotenza, in segrete pratiche di potere e torti umani insuperabili .

 Soleminis (CA)  24 marzo 2023

 

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Recensione di Alessandro Ghisu

V classe liceo scientifico Euclide - Cagliari

 "No, che non parlo. La mia famiglia è questa ormai".

Maria Rosa Giannalia ci presenta in "D'Oro e di Cemento" uno spaccato di vita degli anni '60 in Sicilia, 

attraverso l'occhio di un  boss mafioso, Mimmino,  che, dopo una vita di malefatte, trovandosi in 

carcere, decide di confessare le sue colpe. Tuttavia, egli chiarisce sin da subito come non abbia 

intenzione di tradire i suoi compagni, definendoli come la sua famiglia. Egli nasce da una modesta 

famiglia di operai, e sin da piccolo conosce la fatica e la povertà, impara il mestiere di muratore dal suo 

padrino, onesto e bravo lavoratore, ma dopo i vent'anni decide di allontanarsi da lui e avvicinarsi alla 

cosca mafiosa del suo paese presso la quale si affilia per trovare una forma alternativa e più 

remunerativa di vita e per potere avere tutto ciò che mai aveva avuto.

Con questo espediente narrativo, l'autrice non racconta la mafia che agisce esplicitamente, con omicidi 

o violenze, bensì quella più subdola, nascosta dietro l'omertà delle persone, che si sostituisce allo Stato 

presentandosi come conveniente alternativa.

Viene raccontata così la mafia sotto un punto di vista completamente nuovo, ovvero quello di un 

ragazzo che vuole arricchirsi con il suo lavoro e di come riesce a scalare i gradini dell'associazione 

mafiosa fino a diventarne uno dei boss più noti.

L'autrice ci fa vivere a pieno l'ambiente siciliano del tempo, decidendo di scrivere in dialetto con

frequenti forme colloquiali, proverbi e dicerie, e modificando la sintassi e il lessico per rendere il 

linguaggio più simile ad una forma parlata che emerge soprattutto nella descrizione della mentalità 

contorta del protagonista, che continuamente si interroga sulle sue azioni, domandandosi cosa sia 

successo nella sua vita per essersi ritrovato in quella sua situazione. Perché è nato in una famiglia 

povera? Perché ha dovuto lavorare sin da piccolo in cantiere? Il romanzo si chiude perciò con una

importante riflessione del protagonista, che solo negli anni della galera ha potuto ritrovare quella gioia 

della cultura che provava soltanto quando il suo padrino gli leggeva storie, e non negli  anni della 

scuola, per lui troppo ostica e noiosa.

Perciò, consiglio caldamente la lettura di questo romanzo a chiunque voglia conoscere la mentalità del 

tempo, capire come la mafia si introducesse nella vita delle persone, e soprattutto, per capire a pieno 

l'importanza della cultura.

Cagliari 8 marzo 2023


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Recensione di Elisabetta Rombi


   Ho letto il  romanzo D'oro e di cemento di Maria Rosa Giannalia e l'ho trovato molto interessante e

 riuscito. Non posso sviscerarne tutti gli aspetti, solo qualche osservazione rapida: la scelta del punto di

 vista dà a chi legge la possibilità di una prospettiva inusuale, capace però di rendere la complessità

 dell'animo umano nelle sue contraddizioni (Mimmino tra l'ammirazione e l' affetto del parrino e la

 seduzione di una vita di benessere). Il suo patto col diavolo è reso con credibilità, Mimmino emerge

 come un personaggio autentico, con le sue luci e ombre. E questo lo apprezzo particolarmente:  in un

 momento in cui le distinzioni tra bene e male si fanno marcate, è molto bello che qualcuno ci ricordi

 che gli umani sono difficilmente catalogabili. Mi è piaciuta quella voce (la sentivo parlare) mi è 

 piaciuto il ritmo della narrazione (molto musicale) ho percepito  sotto l'italiano  il siciliano. E le lingue 

regionali sono sempre  più vicine all'anima della gente. Non è un giallo:   è  il pregio della narrazione. 

Riuscita la struttura e i personaggi. C'è una bella tensione, viene voglia di leggerlo d'un fiato ma poi  

manca qualcosa quando termina. 

Cagliari 8 marzo 2023


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Recensione di Rita di Gusberti

  Il duro lavoro, le contraddizioni, la violenza della realtà quotidiana a Villaranci, piccolo paese vicino a Palermo, dove di svolge la vicenda che inizia negli anni Cinquanta e si conclude negli anni Sessanta con la distruzione della Conca d’Oro.

   E’ il mondo di Mimmino, il protagonista, di cui conosciamo percorso di vita, scelte e interiorità fatta di affetti, frustrazioni, distruttività.

   Due piani narrativi e due piani temporali in cui passato e presente si alternano, speculari e funzionali l’uno all’altro, distinti graficamente e con due possibili livelli differenziati di lettura.

    Siamo trasportati nelle vie del paese, nei cantieri di lavoro, nelle case; ascoltiamo le voci dei personaggi; partecipiamo alle mense a volte ricche, a volte povere di cibo, altre volte povere di affetti; vediamo il colore dei campi e sentiamo il profumo della zagara.

    Un’esperienza sensoriale, a tratti sensuale, veicolata dalle descrizioni di paesaggi, di ambienti, di spaccati di vita e dall’uso di un linguaggio molto connotato nei diversi registri soprattutto nella parlata siciliana, quasi una tessitura narrativa.

    Attraversiamo il mondo dei muratori e dei giornalieri, umili e sfruttati senza alcuna possibilità di riscatto, e quello dei mafiosi arricchiti col sacco di Palermo e che, insieme al paesaggio e all’economia, hanno distrutto anche il tessuto sociale e umano.

    In questo contesto Mimmino tradisce i valori di onestà appresi da mastro Michele, il parrino, figura chiave, e li baratta con il lusso e con l’ascesa nella scala sociale.

   Incontriamo figure femminili, alcune identificate nel loro ruolo all’interno della famiglia e altre connotate come Rosetta, con le lacrime azzurre, e Giuseppina, resa muta da Mimmino. Due percorsi di vita che diventano l’uno il contraltare dell’altro.

   Il protagonista si racconta a tre soggetti diversi e in tre contesti diversi: al lettore direttamente; al parrino attraverso la memoria, lo spazio entro cui lo fa agire; al magistrato in carcere, dove è ascoltato in silenzio e senza essere giudicato.

    In realtà parla a sé stesso in una sorta di mappatura esistenziale e autoassolutoria della sua vita e della sua scelta mai rinnegata, attribuendo l’intera responsabilità alle Istituzioni assenti in un mondo dominato da mafia, corruzione e malaffare a tal punto da rendere illusorio, se non del tutto inutile, il tentativo di uscire dalla miseria senza tradire i propri valori.

    Questo il nodo centrale della narrazione, questo il grande interrogativo etico sotteso: come conciliare l’aspirazione al riscatto sociale con l’onestà e il senso civico?

   Una domanda ineludibile di fronte a meccanismi perversi così profondamente radicati, alle responsabilità delle Istituzioni e dei singoli individui cui Mimmino abdica, al senso di fatalismo dominante.

   Nessuno spazio per la speranza, ma una sfida che può concretizzarsi nella figura di Rosetta e, nel finale, in quella di Mimmino.

   Il libro cattura, fa riflettere, interroga.

Chiavari 18/01/2023


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Recensione di Damiana Marongiu

   D' oro e di cemento è un romanzo   di vita vera, molto profondo ma di facile e piacevole lettura.

   I fatti raccontati appartengono ad una realtà  siciliana  e meridionale in generale.

    Mimmino, protagonista principale insieme al padrino Michele si racconta  ad un giudice immaginario in modo staccato da se stesso come se vedesse i fatti dal di fuori.

   Il racconto di Mimmino in prima persona ci mostra  una Sicilia  umile, generosa e  povera. La povertà e  l'ignoranza , la povertà e la cultura sono lo spartiacque che differenziano il pensiero dei protagonisti e di conseguenza gli eventi e le scelte di vita degli stessi.

   Il romanzo ci porta ad una esperienza  sensoriale immaginaria completa,  con il profumo   delle zagare, il gusto dolce dei mandarini, il paesaggio dorato dal sole e il canto degli uccelli  tra gli alberi di mandarini.

   Questo romanzo vi farà conoscere uno spaccato di vita reale

  della bella Sicilia.

 

Quartu Sant’Elena 15/01/2023


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 Recensione di Giuseppe Ciminna 

Ho raccolto le chiavi di lettura del tuo libro che come compaesano sento già mio. Hai saputo tessere storia, cultura e Invitare alle riflessioni. Un fantastico racconto, originale nell’idea e nello stile letterario, dove costume e politica invitano il lettore a capire- attraverso una lettura piacevole - lo studio antropologico e sociale e lo sviluppo subdolo dei territori e nostro in particolare. Un regalo alle nuove generazioni che hanno bisogno di conoscere la storia del proprio territorio, il senso e le dinamiche del presente. Trovo originale la forma di scrittura con cui si evolve il racconto del protagonista. Sei grande!

Villabate 13-01-2023

 

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Recensione di Daniela Patti 

  Ho letto il  libro e sono stata molto coinvolta da varie riflessioni che via via ha suscitato in me la lettura del racconto. Non mi soffermo a commentare lo stile, il linguaggio (che comunque trovo molto scorrevole e semplice adatto a tutti i tipi di lettori) quanto piuttosto al contenuto. I luoghi il paesaggio sono ben descritti e rappresentati tanto da poterli immaginare nella mente, vederne i colori e sentirne il profumo della zagara e degli agrumi; inoltre per me che sono del territorio i personaggi sono figure attuali che possono riscontarsi anche adesso nei modi di pensare e di fare di tanta gente, persone comuni in cui ancora persiste questa cultura, questa mentalità. Trovo che sia anche adatto alla lettura delle nuove generazioni per comprendere meglio le radici del nostro territorio, dei modi di fare della gente del luogo, che, anche oggi, seppure a distanza di tanti anni, serpeggia tra chi sembra essersi emancipato e chi è rimasto legato alle tradizioni. Figura centrale è Mimmino un uomo che incarna bene le varie sfaccettature di personalità comune a gente che anche oggi dopo essere cresciuta con dei "valori" ad un certo punto si trova davanti ad una scelta, ma anche gli altri personaggi (seppur meno evidenti) ci raccontano molto del ruolo che occupano e che rappresentano nella realtà quotidiana del territorio. Leggendo attentamente è un libro che scava molto dentro l'animo umano mettendo in risalto i conflitti interiori che ognuno di noi è chiamato a vivere per rimanere nel territorio con le conseguenze che deve sopportare in base alle proprie scelta di vita. Noi siamo il frutto delle nostre scelte, scelte fatte in base ai valori che abbiamo ricevuto, raccolto e voluto portare con noi nel nostro bagaglio, che ci portiamo dietro e segnano la nostra vita. Uno spaccato della società di quel periodo storico che si attualizza anche oggi in cui il sacco di Palermo continua ad essere presente con la costruzione di palazzi, case ecc.. Che sorgono senza prima aver creato servizi essenziali che servono per vivere decorosamente e in modo dignitoso, venendo a mancare spazi per le scuole, parchi, aree verdi in cui sostare, spazi per parcheggio di auto, zone dedicate ad attività industriali di vario tipo che invece le ritroviamo in mezzo alle abitazioni civili provocando inquinamento acustico, aria insalubre etc.....insomma "munnizza" di ogni genere. Complimenti Mariarosa, un libro semplice, pulito ma che va dritto al cuore di chi legge.

 

Villabate 13-01-2023


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Recensione di Ilaria Pistolato


   La voce è una sola ma i personaggi sono tanti. Il racconto della vita di un uomo che affronta la dicotomia bene-male, fra convenzioni sociali e bisogno di facile rivalsa. Un confronto fra il vivere una vita faticosa che imiti “la regola d’arte” contro la semplicità dell’arrendersi a costo della perdita della cosa più importante:  la famiglia.

   I personaggi sono metafore della vita e del tempo che passa e ci richiamano a ricordi di un paesaggio perduto evocato non solo da descrizioni ma dai profumi. Avvicinano al luogo chi non lo conosce riuscendo a far sì che ciascuno lo faccia proprio, risvegliano una memoria che non sappiamo di possedere, apparentemente universale ma specificatamente di quel territorio.

   E’ la grande capacità immaginifica di questa narrazione,  scorrevole  soprattutto grazie alla alternanza fra un passato evocato e un presente drammatico e intenso che non dà modo al lettore di stancarsi durante tutto il cammino del protagonista alla scoperta della sua propria verità.

Venezia, 5/01/2023


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Recensione di Rosetta Martorana


   I personaggi chiave sono Michele padrino di battesimo di Mimmino, il protagonista del romanzo.

 A Villaranci Mimmino inizia a lavorare a soli 10 anni nel 1955 con mastro Michele suo parrino.

   Uomo onesto e gran lavoratore, Michele insegna al figlioccio la tecnica della  costruzione delle case, ma, per una serie di circostanze avverse, vivrà miseramente e chiuderà l’attività. 

   I due si separano percorrendo strade diverse. A vent’anni Mimmino lavora per una grande impresa edile che gli permette di entrare nel giro dei soldi.

   Ed è a questo punto che decide di cambiare tutta la sua precedente vita affrancandosi dalla povertà. Decide quindi di affiliarsi alla malavita entrando nel giro di quel don Ciccio che aveva portato alla rovina suo padrino.

   Siamo in pieno sacco di Palermo con l’edilizia selvaggia che trasforma la Conca d’Oro, fatta di giardini di agrumi, in un enorme alveare di case costruite con il benestare della mafia, della corruzione e del malaffare. Mimmino tradisce i valori trasmessi da mastro Michele e diventa uno dei protagonisti dello scempio della Conca. 

    Quest’opera prende e cattura il lettore per diversi aspetti della storia narrata e precisamente:

 -per lo sfondo storico che vede anche noi attori di un’epoca legata alla nostra adolescenza;

 -per il territorio tutto siciliano, anzi palermitano, che fa parte di noi stessi;

 -per i diversi tipi di registro linguistico adoperati;

 -per la passionalità con cui l’autrice narra gli accadimenti.

   Tutto questo, a mio avviso, affascinerà anche chi siciliano non è perché si avverte una sorta di sottile fatalismo che, pur essendo una caratteristica tipicamente sicula, coinvolge ontologicamente ogni essere umano specialmente quando si attraversano fatti epocali, come quelli attuali.

   L’autrice ha messo in esergo al suo libro un pensiero di Corrado Alvaro, tratto dal suo “ Ultimo diario “ del 1961 e che costituisce la cifra interpretativa di questa narrazione,  a proposito della disperazione che può impadronirsi di una società, relativa al dubbio che sia inutile vivere con onestà.    Ma ci si chiede fino a che punto la nostra coscienza possa fare da baluardo di fronte a certi avvenimenti che toccano le proprie scelte, il proprio diritto alla felicità, il sogno individuale più semplice di benessere, il desiderio di ogni persona di sentirsi importante nel suo piccolo, quando certi meccanismi perversi e ingarbugliati non tutelano la brava persona, il cittadino con un forte senso civico, il padre di famiglia che vuole assicurare l’essenziale ai propri cari   e tante altre realtà sotto gli occhi di tutti.  La narrazione è tutta giocata in prima persona attraverso il protagonista, Mimmino bambino e Mimmino ventenne e adulto, con una tecnica di scrittura che permette, in un’alternanza narrativa, di avere presente nello stesso momento la conoscenza sia del primo protagonista, Mimmino appunto, che del secondo protagonista, mastro Michele, la cui vita il lettore conosce dal racconto che Lui, il suo figlioccio prediletto, fa al magistrato che lo interroga in carcere.

Tutti i fatti narrati costituiscono la cornice entro cui si muove il protagonista nelle diverse età della sua vita in un continuo avvicendarsi tra presente e passato che si coglie attraverso i vari registri linguistici magistralmente adoperati dall’autrice.

La struttura del testo non è lineare, ma presenta questa disposizione:

1) Nelle pagine dispari.Mimmino dai sei anni ai venti  si racconta direttamente ai lettori

2) Nelle pagine pari, invece, Mimmino, più che quarantenne in carcere,  dialoga mentalmente con il suo parrino, che racconta ( tutto ciò che ha detto di sé stesso e di lui, cioè il parrino, e del rapporto prima dei vent’anni) al magistrato che lo interroga cercando di persuaderlo a diventare collaboratore di giustizia. 

I due piani narrativi, in questa prima parte, permettono di passare dallo stile narrativo, discorsivo e spesso di forte denuncia di Mimmino adulto a quello di Mimmino piccolo caratterizzato dal forte recupero memoriale e dalla grande ammirazione nei confronti del parrino; i due registri si avvicendano di continuo senza mai creare confusione o incertezza; anzi diventano uno strumento accattivante e una marcia in più nel godimento della lettura.  Molto efficace è il monologo del protagonista che viene vissuto dal lettore come un dialogo, la cui controparte è da ricercare nell’episodio stesso narrato o nella propria coscienza ricordando così lo stile di Sandor Maraj delle “ Braci “. Questo registro linguistico permette un vero e proprio esame di coscienza che diventa dominante nel continuo porre domande al magistrato presente sempre taciturno, come quasi un convitato di pietra, perché le risposte vengono date da Mimmino stesso con precisione e amara lucidità e perché il giudice è il lettore medesimo il quale non accetta e non dà una giustificazione alla scelta fatta, ma ne comprende la genesi. La narrazione di certi fatti è poi caratterizzata da un’atmosfera da romanzo giallo con la tecnica della suspence: gli episodi vengono ripresi cronologicamente dopo,  con il tipico enjambement di ariostesca memoria.

   Come afferma l’autrice, corrispondono alla realtà la storia del parrino Michele, la Palermo degli anni del dopoguerra, il paesaggio della Conca d’Oro e il saccheggio di Palermo con l’edilizia selvaggia; il resto è frutto di invenzione che scaturisce però dalla realtà come ebbe ad affermare Manzoni con il concetto del verosimile. Emblematica e decisiva è la descrizione di Mimmino piccolo ( con tanti ideali e progetti di vita improntati all’onestà di Michele che non si arricchì mai e lavorò sempre con scienza e coscienza; come diceva lui: “ A regola d’arte”) rapportata a Mimmino adulto realizzato ma deluso e arrabbiato perché ha dovuto pagare lo scotto del suo cambiamento sociale rimanendo fedele ai nuovi principi perversi, fatti propri e mai rinnegati, facendone  però un grimaldello della sua coscienza per accusare chi lo ha portato a tanto.

Dice Mimmino: “Meglio essere qualcuno per venti come me che essere nessuno per tutti. La speranza di Mimmino piccolo e la determinazione di Mimmino adulto costituiscono le file rouge dell’intera storia che diventa quasi una denuncia allo Stato e alla società come se lui non avesse colpa e che corrisponde alla descrizione, tra le righe, di una certa anima siciliana tradita nella non realizzazione di ciò che le spetta di diritto.   Il romanzo vuole far capire che si diventa mafioso, senza però prendere mai le difese di chi delinque, per colpa delle Istituzioni assenti e che si disinteressano dello sfruttamento e della povertà di una società abbandonata ad un destino prestabilito con l’unica scelta di intraprendere una trada senza ritorno.  

La narrazione dal punto di vista del protagonista crea curiosità nel lettore che viene catapultato nella storia arrivando a provare simpatia per lui e sperando in una sua redenzione. E’ un libro che ti lega alla storia e ti conduce alla conclusione con soddisfatta curiosità, ma anche con una punta di rabbia per il mancato rispetto delle buone e brave persone che in Sicilia sono tante.

  PALERMO, 2 DICEMBRE  2022                       

         

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 Recensione di Giulia Tumminello


In questo post una riflessione sul mio libro "D'oro e di cemento" di Giulia Tumminello, che ringrazio.

"Premessa doverosa:

si tratta di commento a caldo sulle tematiche che mi sono rimaste maggiormente impresse, e che non vuole essere esaustivo. Inoltre, non so come si scriva un commento.

Seconda premessa ancora più doverosa: non ho mai dato un mio parere su un libro all'autore dello stesso!Ma questa circostanza non mi inibirà affatto, anche perché il romanzo mi è piaciuto. Quindi ecco il commento:

ho apprezzato il mutamento del registro narrativo, quasi elementare nelle prime pagine, ma appositamente scelto per dare veridicità allo status e all'età del narratore, che diventa più appropriato nel prosieguo del racconto. (anche se il registro di Mimmino da adulto mi sembra fin troppo curato per appartenere ad un analfabeta arricchito. Ma magari questo è un mio pregiudizio. In ogni caso, registro apprezzato per una lettura più spontanea e piacevole).

Ho apprezzato anche la lunghezza non eccessiva di periodi e capitoli che hanno reso la lettura piacevolmente scorrevole.

Quanto alla trama, mi è sembrato audace il modo di descrivere i due mondi contrastanti, cioè quello dei mafiosi arricchiti e quello della gente umile.

In particolare, il mostrare il mafioso arricchito che non si pente, ma che anzi rivendica il proprio operato e la propria appartenenza ad un sodalizio criminale quale riscatto nei confronti di una società che non concede possibilità di emancipazione agli ultimi, ai meno abbienti.

Del resto sarebbe ipocrita non ammettere che in determinati strati sociali è questo il pensiero dominante, e anche una amara verità.

Quanto alla narrazione relativa a muratori e giornatari, ho apprezzato l'assenza dell'ipocrita esaltazione popolare del grande lavoratore umile, povero ma per questo pieno di dignità (e basta?), come se fosse la sola condizione possibile cui può ambire un umile semianalfabeta (viva la figura di Rosetta!!).

Vero è che la narrazione è quella di un mafioso, e che quindi non può pensarla diversamente, ma altrettanto vero è che il testo è dell'autore.

E secondo il mio giudizio da lettrice, l'autrice ha operato una selezione ben equilibrata ed equidistante nella scelta dei "pro" e dei "contro" nella descrizione dei diversi ambienti sociali di appartenenza dei personaggi del romanzo.

Ancora complimenti!"

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Recensione di Ornella Pani


Come si diventa un mafioso? Una buona dose di colpa è delle istituzioni assenti, che sembrano dimenticarsi di una società dove lo sfruttamento e la povertà sono un destino ineluttabile, a meno di imboccare una strada da cui non c'è ritorno. L'io narrante è molto bravo a spiegare al giudice il suo punto di vista; un giudice che non gli risponde mai, per tutto il romanzo, perché quel giudice è il lettore. E il lettore, se non può giustificare quella scelta, può almeno capire da dove nasce.

Voglio dire a Maria Concetta Rosa Giannalia che il suo romanzo mi è piaciuto.

 

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Recensione di Maria Teresa Casu


Ho trovato originale l'idea del dialogo del personaggio Mimmino con un giudice "assente", e viene il 

sospetto che in realtà si tratti di un dialogo interiore e intenso che fa immaginare al lettore, ansioso di 

scoprirlo, un pentimento che non arriverà. Mi sono chiesta il perché di questa conclusione, che è il vero 

colpo di scena dell' intera vicenda. ( Forse rimarrà un segreto, che ogni autore, d'altronde, porta con sé 

nella propria creazione letteraria). Ho provato a cercare la risposta nel carattere di Mimmino,  disposto 

a sacrificare famiglia, e affetti, pur di salire i gradini della scala sociale fino al punto più alto. Ci si 

trova immersi nella sua vita, disapprovando, o meno, le sue scelte, ma comunque indagando sulle 

origini di questa dubbia moralità. Nonostante questo, ne fai un personaggio (quasi) simpatico, e il 

lettore diviene suo "complice" nelle rivendicazioni, illegali beninteso, dei diritti di cui è stato privato 

da una società ingiusta ed egoista.

Ho "visto" i campi coltivati, e il colore di arance e mandarini; ho "sentito" il profumo delle zagare. E 

questo non è cosa facile. Inutile dirti che ho trovato il linguaggio ben adattato a ogni situazione. Un bel 

libro, e, di questi tempi, se ne trovano pochi in giro. Sono stupita che le case editrici a cui ti sei rivolta, 

non abbiano saputo apprezzare.

O forse siamo noi veramente sprovveduti, e incapaci di apprezzare la bellezza?



sabato 18 giugno 2022

Il treno dei bambini

 


di Viola Ardone- Einaudi Stile Libero 2019



Recensione di Maria Rosa Giannalia


 

Il romanzo di Viola Ardone pubblicato nel 2019 da Einaudi stile libero, si ispira ad una storia vera: una storia di solidarietà  organizzata dal partito comunista e dall’UDI che realizzò lo spostamento temporaneo, nel 1946 dopo la devastazione della guerra, dal sud Italia verso l’Emilia Romagna di migliaia di bambini, con conseguente affidamento a famiglie accoglienti, per essere salvati dalla miseria e dalla fame.

 

Amerigo, piccolo scugnizzo napoletano, vive con la madre Antonietta in un basso di Napoli. Passa le giornate osservando le scarpe dei passanti e attribuendo un punteggio per ogni scarpa sana fino a totalizzare il massimo dei punti. Questo suo passatempo alternato con i giochi insieme agli altri suoi amichetti dei bassi, apre lo scenario su una città poverissima nell'atmosfera del dopoguerra con una grande fame e miseria di tutta la popolazione povera e senza alcun mezzo di sostentamento.

Per questi bambini viene approntato un treno ad opera delle donne dell'UDI sostenute dal PCI, che li condurrà verso Modena dove essi troveranno famiglie accoglienti ed affettuose.

In una di queste famiglie si situa Amerigo, protagonista del romanzo, il quale, conosciuto il benessere, si accorge di quanto sia  misera la condizione sua e della madre. Per questo, al suo ritorno a Napoli, si trova a non potere più sopportare quella condizione di estrema miseria e scappa per raggiungere la famiglia accogliente a Modena dalla quale si fa adottare col consenso della madre Antonietta.

Da adulto Amerigo tornerà a Napoli per darle l'ultimo saluto. Ma la madre è già morta e Amerigo si aggirerà per quegli stessi vicoli dove scoprirà che la povertà e l'infelicità da cui era scappato non potrà essere risolta se non con un atto d'amore verso quella stessa famiglia che ha ripudiato per tutta la vita.

  

L’autrice Viola Ardone è relativamente giovane ed è alla sua terza esperienza di scrittura. Questo è, a mio avviso, un elemento da tenere presente nell’analisi del testo.

Non c’è dubbio che la fortuna del libro nasca dal racconto assai toccante dell’avventura toccata ad un gruppo di bambini dello stesso rione dei bassi napoletani tra cui si trova lo stesso protagonista, Amerigo, che narra in prima persona tutta la vicenda occorsa a sé e ai suoi amici, bambini tra i sei e i dieci anni. Fortuna data anche dal fatto che l’episodio autentico non era stato mai narrato in chiave romanzata.

La narrazione procede quindi dal punto di vista di Amerigo per tutte le tre prime parti del romanzo, mentre nella quarta parte è un Amerigo adulto che parla in un dialogo immaginario con la madre appena morta. Il narrato, per bocca del piccolo Amerigo, procede attraverso uno stile  e un registro linguistico tipico degli scugnizzi napoletani che, vissuti nella miseria, devono arrabattarsi anche per il pane quotidiano. E Amerigo non fa eccezione: egli è perfettamente inserito in questo contesto e assolutamente inconsapevole della sua condizione di povero  figlio di una giovanissima madre incapace di dargli l’affetto che il piccolo si aspetta. Affetto che la madre tuttavia sa dargli a sprazzi attraverso gesti quotidiani ben sottolineati dalle parole del bambino . Antonietta non è una madre anaffettiva, è una madre povera di beni e di sentimenti. Non sa neppure svelare la sua vera paternità al piccolo il quale, per questo, andrà  per tutta la vita alla ricerca di una stabilità che solo la cognizione della propria nascita può conferire anche agli ultimi nella scala sociale.

Le parole  che Amerigo usa per narrare sono ingenue, fresche, costitutive del linguaggio degli scugnizzi, attraversato da espressioni che conservano il ritmo del dialetto napoletano, come la stessa autrice afferma in questa intervista. 

Questa scrittura conferisce alle prime tre parti del romanzo un realismo poetico che l’autrice riesce ad organizzare in un unicuum narrativo nel quale il lettore si immerge con piacere.

L’autrice rende assai bene , con le parole dell’infanzia, di quella infanzia, il senso della meraviglia di fronte a possibili altri mondi affettivi ai quali i piccoli non sono abituati e al senso di gioia e di appagamento nel partecipare di quel mondo diverso, più ricco, dove predomina abbondanza di cibo e di cure, dove i piccoli possono finalmente dismettere i panni dei “finti adulti” e diventare quello che realmente sono : bambini con desideri  e aspirazioni da bambini.

Che l’allontanamento dalla loro realtà miserabile dei bassi napoletani verso un mondo più vivibile, occasione generosamente offerta dalla popolazione dell’Emilia Romagna, sia un’arma a doppio taglio per questi piccoli, è tuttavia un fatto ineludibile con il quale essi dovranno, al loro ritorno, dopo avere conosciuto il benessere, confrontarsi ,immersi nuovamente in  quella vita di stenti che avevano pensato essere scomparsa per sempre.

Nell’immaginario infantile, questo ritorno è tanto più avvilente quanto più, come è il caso di Amerigo, la”famiglia di origine” è anni luce lontana dal paradiso che i bambini hanno conosciuto e abitato per sei bellissimi mesi.

Il caso di Amerigo è eclatante: l’oggetto simbolo della sua vita rinnovata , un violino che gli era stato regalato dalla famiglia di accoglienza, sparisce da sotto il letto dove lui l’aveva religiosamente custodito. La madre ha necessità di cibo e non esita a venderlo, compiendo un atto la cui conseguenza immagina benissimo ma che tuttavia ritiene indispensabile per la sopravvivenza sua e del figlio.

Le azioni compiute da Amerigo, consequenziali a questo episodio ( la fuga da Napoli alla volta di Modena, il rifugio definitivo presso quella famiglia e il ripudio della madre dopo la nascita del fratellino Agostino) lo segneranno per tutta la vita. Alla povertà e alla miseria non si sfugge:  entrambe diventano connotative nella vita di Amerigo che ne porterà i tratti per tutta la vita e non riuscirà a liberarsene neanche da adulto quando, già affermato violinista, affrancato dal bisogno, ritornerà a Napoli per un ultimo saluto alla madre morta.

Nella  quarta parte del romanzo, meno spontanea e riuscita forse delle altri tre parti, l’autrice vuole riscattare la condizione di perdita del bambino Amerigo, perdita con la quale egli ha dovuto fare i conti lungo il corso della sua vita. Per questo l’adulto Amerigo torna a Napoli nella speranza di rendere l’ultimo saluto alla madre e attraversa quegli stessi vicoli, cammina su quelle stesse pietre, riconosce i segni della sua infanzia passata che gli si rovescia addosso esattamente nella sua integrità.

Egli si difende: mente circa la sua vera identità  con chi fa le viste di riconoscerlo, mente  sul suo lavoro, mente sul suo cognome, ribadendo che lui si chiama Benvenuti, mente sul suo stato civile, mente persino sulla paternità presunta di due figli per scrollarsi di dosso quel suo passato di miseria, perché la miseria, quando la si è provata, diventa un tratto caratteristico dell’anima e si trasforma in paura che non molla mai la sua preda, pronta a ripresentarsi al solo apparire di un oggetto, di una persona , di un ricordo.

A questa paura l’adulto Amerigo vuole sfuggire ma senza successo: essa lo accompagna lungo tutta la sua permanenza in quella sua città natale.

A questo punto, il romanzo avrebbe potuto avere la sua conclusione, in coerenza con l’atmosfera evocata nelle precedenti tre parti. In tal senso in questa parte conclusiva anche l’uso della seconda persona all’interno del modificato registro linguistico , acquista un senso funzionale alla storia, perché il colloquio di Amerigo con la madre prescinde anche dal lettore ed acquista autonomia nella volontà del riscatto attraverso una muta richiesta di perdono.

Peccato che l’autrice non si sia saputa sottrarre ad una  conclusione scontata: il lieto fine che, con la probabile adozione del nipotino rimasto solo, dopo l’arresto dei genitori, lo assolve e lo salva.

Il lettore magari ne sarà felice, ma questa conclusione sottrae autenticità e coerenza alla storia narrata.

 

 


 

domenica 24 aprile 2022

Cinque stagioni di Abraham Yeoshua

 


 Recensione di Maria Rosa Giannalia

 


   Ad Haifa, città dello stato di Israele, nello sfondo del conflitto latente con la Palestina, in un sottofondo di guerra con alterne vicende , con odi mai sopiti, con recriminazioni dovute alle diversità di abitudini religiose e sociali, Abraham Yeoshua intesse una storia di gente comune, attraverso la vicenda del protagonista, Molcho, impiegato statale, ebreo osservante, ligio agli insegnamenti della sua religione e della sua famiglia. Questi si trova ad affrontare un periodo molto doloroso della sua vita a causa della malattia mortale della moglie, della responsabilità dell’assistenza che a questa deve, alla responsabilità che  dovrà assumersi nell’accudimento del figlio minorenne e del rapporto con gli altri due figli maggiorenni uno dei quali ancora convivente.

   Dopo la morte della moglie che si dà tutta nell’incipit del romanzo, Molcho si ritrova vedovo, ancora relativamente giovane ( ha cinquantatrè anni), alle prese con una società che lo vorrebbe sposato con una seconda moglie dopo un giusto periodo di lutto, osservante delle pratiche rispettose della tradizione nella conduzione della famiglia, ligio al rapporto con la suocera - che non ha mai mancato di assicurare la sua presenza durante la malattia della figlia, assumendosi la propria parte di responsabilità nella gestione della famiglia, nipoti compresi - e infine affettuoso e devoto figlio di una madre esigente e un po’ tirannica che vive a Gerusalemme e che  reclama le attenzioni verso la sua persona.

   Molcho è un uomo mite, vissuto sempre all’ombra della moglie che si intravede qui e là nel testo essere stata la conduttrice più ferma del ménage coniugale  con la sua determinazione teutonica, essendo di origine tedesca e informata alla cultura mitteleuropea piuttosto che a quella introspettiva e analitica tipicamente ebraica.

    Dopo il periodo prescritto per il lutto, Molcho conosce diverse donne: la prima della serie, una collega del suo stesso ufficio ma di grado superiore al suo, la seconda, la moglie di un cugino ebreo ortodosso privo di discendenza che per questo è pronto a divorziare e a “cedere “ a lui la sua stessa moglie, e infine una ragazza ebrea russa, figlia di un’amica della suocera che si rifiuta di vivere in Israele e vuole caparbiamente tornare a vivere nella Russia ex sovietica. C’è un’altra figura femminile, la più improbabile nella vita di Molcho , ma anche la più perturbante, la figlia appena adolescente di un indiano che il protagonista incontra per caso nel corso di un viaggio di lavoro cui era stato costretto dal proprio direttore  d’ufficio.

     Ognuna di queste figure rappresenta nella vita di Molcho un itinerario differente e un’occasione di conoscenza e di riflessione su di sé.

      Ricondotta a questi elementi la trama si presenta alquanto scarna ed essenziale, ma il modo con cui l’autore intreccia le vicende minimali di questi personaggi conferisce alla narrazione  ritmo e  notevole spessore letterario.

      Si può quasi dire che questo romanzo abbia un andamento emotivo più che narrativo, poiché la narrazione procede attraverso la focalizzazione dei diversi episodi che vedono Molcho impegnato nel rapporto con queste differenti donne.

      Dalla vita fatta di routine con i suoi movimenti e le sue pause che il protagonista ha condotto con la moglie , intersecata dalla presenza costante della suocera che ammira e rispetta e il cui ruolo non contesta mai all’interno della sua famiglia, Molcho passa al rapporto con la collega, donna volitiva e prescrittiva che per una fatalità di quelle imprevedibili, durante un viaggio in Germania est dove insieme si erano recati per una breve vacanza, sarà costretta  a “subire” la presenza di Molcho in veste di uomo accudente anziché di amante focoso quale lei se l’era immaginato o forse aveva sperato che fosse.

   Con Yah’ra , moglie del cugino ebreo ortodosso, Molcho ha l’opportunità di vivere un po’ di giorni insieme , quasi una prova prematrimoniale che avrebbe potuto preludere ( almeno nella mente del cugino) ad un secondo matrimonio. Questo rapporto iniziale è però confuso e intermittente: Molcho trova diverse caratteristiche sgradevoli nella donna, e, dopo averla passata al setaccio della sua analisi, capisce di non avere alcun interesse reale per lei. Il tutto mentre il marito continua a telefonare per informarsi dell’andamento della prova o , forse, perché inconsciamente legato ancora alla donna dalla quale realmente non vuole divorziare.

    Il rapporto che Molcho intesse con l’ultima delle tre donne, la più giovane, una ragazza non ancora ventenne che lui ha acconsentito, spesato di tutto, di riaccompagnare in Europa da dove la ragazza tornerà in Russia, è il più destabilizzante per il lettore: non si capisce se lui abbia acconsentito per rendere un favore alla suocera o per fare un viaggio gratuito o perché in fondo interessato anche alla compagnia della ragazza stessa. Lo stesso protagonista non lo sa, avverte dei sentimenti confusi ma non li analizza, la ragazza gli sfugge e lui disattende lo scopo di quel viaggio.

     La confusione dei sentimenti è cadenzata da una caratteristica concreta di Molcho: il suo rapporto con il denaro. Non è un uomo avido, sicuramente, ma possiede una parsimonia maniacale che tarpa ogni manifestazione di affettività e, in certo modo, lo possiede .

     Ma l’ultima figura femminile credo sia per Molcho quella maggiormente perturbante ma nello stesso tempo anche necessaria per la sua comprensione dell’universo femminile: una ragazzina dodicenne, innocente, priva quasi di caratteristiche femminili, che turba il suo equilibrio sentimentale. L’attrazione sconveniente che Molcho, uomo maturo, prova, lo costringe a fare finalmente i conti con la sua psiche e con la sua anima e a condurre una specie di autoanalisi che , infine, lo porterà alla comprensione di sé.

    La narrazione di Yeoshua che ha un ritmo lento, un registro medio, un lessico ordinario, sottolinea e quasi accompagna l’itinerario morale  del protagonista in una sorta di educazione sentimentale che quest’ultimo non è stato in grado, nonostante la maturità e l’esperienza accumulata nel corso della sua vita , di raggiungere pienamente.

       Il ritmo che l’autore sceglie per questa scrittura sembra accompagnare questa evoluzione lenta ma compiuta. Il fatto, ad esempio, di avere dato alla narrazione uno sviluppo cronologico che parte proprio dalla morte della moglie, dà la possibilità all’autore di sviluppare questo tipo di itinerario verso l’affrancamento dai condizionamenti sociali del contesto ebraico e dalla tirannia del femminile, così presente e incalzante nella vita del protagonista da renderlo totalmente succube delle scelte altrui e incapace di determinare volitivamente  il suo modo di essere.

       I flash-back sparsi nella narrazione danno la possibilità all’autore di rappresentare compiutamente anche gli altri personaggi che si connotano principalmente nella relazione con il protagonista.

      Veramente interessante l’uso del lessico quotidiano e familiare attraverso il quale Yeoshua dipinge la vita del protagonista nel contesto, che è sempre sullo sfondo e molto defilato, della realtà di Israele tra guerra continua e voglia di normalità.

 

Maria Rosa