venerdì 27 dicembre 2013

Del come e del quanto lo stato paga i commissari dei concorsi a cattedra.

Alla fine del 2012 il MIUR ha bandito i concorsi a cattedra. Anch’io, insieme a molti altri docenti, ho inviato una domanda richiedendo di far parte di una delle  commissioni giudicatrici. Ovviamente tale domanda l’ho spedita dopo avere letto attentamente il bando e avere quindi appreso che, per l’impegno che avrei dovuto sostenere, avrei percepito una cifra forfettaria di pochissimi euro che nel bando non veniva neppure esplicitata e di 0,50 euro per ogni compito corretto ( sì, avete letto proprio bene: 50 centesimi a compito!).
Nonostante le premesse mi sembrava una buona cosa dare la mia adesione e, poiché ero da poco in pensione, mi è sembrato opportuno dare ancora un mio contributo perché ho sempre lavorato nella scuola con grande passione e ho ritenuto trascurabile interessarmi dell’aspetto economico della cosa.
Alla mia commissione sono stati attribuiti duecentoquarantacinque concorrenti e quindi, espletati gli scritti, ci sono stati assegnati duecento quarantacinque compiti da correggere.
Il concorso avrebbe dovuto essere svolto entro il mese di giugno del 2013, o almeno così ci era stato detto. Infatti i commissari che hanno accettato di continuare, dopo la valanga di rifiuti dell’incarico attribuito, speravano di potere godere  delle vacanze estive come ogni lavoratore. Invece gli scritti si sono tenuti nel mese di marzo e le correzioni, per motivi burocratici che non abbiamo capito molto bene, sono slittati al mese di maggio e parte di giugno.
Per correggere duecentoquarantacinque compiti, è necessario un tempo congruo, che al netto delle pausa-pranzo e delle piccole pause-caffè, è andato a consistere in circa cinque ore al giorno per una trentina di giorni. Ci avevano detto che potevamo andare a mangiare in una tavola calda e che i pasti ci sarebbero stati rimborsati.
Ora, essendo noi docenti della commissione in maggioranza donne e non avendo l’abitudine di ingozzarci di cibo, ma anzi di badare alla nostra dieta, abbiamo mangiato il minimo indispensabile, pensando che, comunque, non avrebbe fatto bene né alla nostra salute né alla nostra linea abbondare in cibo, in considerazione che tavole calde non ce n’erano in prossimità della scuola che ci ospitava o meglio una c’era ma con un tipo di cucina adatta più lavoratori di mano che di mente. Così ci siamo accontentati di insalatine, qualche frutto e talvolta, volendo esagerare, qualche pezzo di formaggio. Il tutto consumato al ristorante di un albergo poco lontano dalla scuola. Ma questo non  per tutti i giorni di correzione, ché anzi molto spesso, parendoci cosa buona e giusta non allontanarci per più di una mezzora al massimo, e, vista la crisi, di non pesare sul bilancio del MIUR, abbiamo pensato di portarci da casa cibo da consumare direttamente nella stanza di lavoro. Qui,  infatti, allo scoccare delle tredici stendevamo sul tavolo , previo accantonamento delle carte, delle graziose tovaglietta all’americana sulle quali mettere i nostri piccoli contenitori  e i nostri bicchieri e bottiglie d’acqua. Questo è ciò che abbiamo fatto per quasi tutti i giorni dedicati alla correzione degli scritti. Solo quattro o cinque volte siamo andate a mangiare al ristorante di cui sopra richiedendo ogni volta  scrupolosamente regolare ricevuta fiscale, per accluderla alla documentazione finale, fiduciose che, almeno, ci sarebbero state rimborsate quelle piccole spese dei pasti.
Abbiamo dunque lavorato per tutto il mese di aprile e a inizio maggio eravamo pronti ad iniziare, seguendo la prassi indicata dal bando, gli orali per i quali avevamo provveduto a stilare  un apposito calendario di circa quindici giorni, vista anche l’esiguità del numero dei concorrenti da esaminare dopo la selezione degli scritti.
Ma le nostre attese sono state abbondantemente… disattese e quello che doveva essere un lavoro da concludersi entro fine giugno si è protratto, sempre per inestricabili e inconoscibili motivi burocratici per tutto il mese di luglio e, dopo la pausa di quindici giorni di ferie estive, per l’ultima settimana di agosto!
Il tour de force  nostro e dei candidati, nel caldo del mese di luglio cagliaritano non è stato certamente leggero: anche i nostri già magri pasti ne hanno risentito e ci siamo permessi di uscire a pranzo , sempre nel ristorante annesso all’albergo, sì e no, tre-quattro volte in tutto. Per il resto abbiamo consumato le nostre insalatine dentro l’aula messaci a disposizione con l’aria condizionata a tutto campo, poiché il mese di luglio del 2013 rimarrà memorabile non certo per il concorso ma sicuramente per il caldo sofferto dai malcapitati concorrenti.
Ma insomma, espletate tutte le operazioni di rito, finalmente abbiamo concluso il nostro lavoro, per quanto ci ha riguardato, ben fatto , con scrupolo e tutta la professionalità di cui siamo stati capaci pur nell’atmosfera torrida dell’estate cagliaritana.
Finalmente siamo tornati ciascuno alle proprie incombenze e ci eravamo quasi dimenticati della remunerazione dovuta, dei rimborsi e di tutto il resto. La nostra professione infatti ha questo di buono: ci abitua fin da subito alla povertà, alla parsimonia, alla considerazione che tutto ciò che il docente di scuola fa durante il suo lavoro ha un valore così grande che non può essere retribuito in moneta. E infatti non ci pagano, tutt’al più ci “mantengono in vita” fino all’atto finale del pensionamento quando scopriamo che: a) tutti gli anni di servizio non possono essere conteggiati ai fini della pensione né della liquidazione per motivi così complessi che il solo atto di comprensione, esulando dalle nostre competenze tese a esercitarsi in termini di formazione e di cultura, ci distrugge psicologicamente e ci fa preferire rinunciare piuttosto che impegnarci per avere giustizia in una lotta impari con il mostro dai multiformi tentacoli della burocrazia scolastica; b) non tutti gli anni di pre-ruolo che ci hanno visto percorrere chilometri e chilometri di strade per tutta la Sardegna nell’arduo compito di raggiungere gli studenti di paesini interni dell’isola, dove non arrivano neppure i mezzi pubblici, per cause misteriose e inadempienze della burocrazia interna alle stesse scuole, non ci verranno mai riconosciuti in termini monetari; c) la nostra pensione al netto delle tasse si riduce a una somma pari solo, forse, a quella che riceve un docente precario all’inizio della sua carriera.
Ed è in questo spirito che finiamo per accettare tutto, anche il fatto che, come sta accadendo purtroppo in questi giorni, gli insegnanti vengano pagati a…sorteggio!
Poi, giusto nel giorno del mio compleanno, mi è arrivato il bonifico da parte del ministero.
Ho deciso di rendere pubblico l’ammontare che il MIUR mi ha corrisposto per questo lavoro che ho svolto ( ovviamente a me come, presumo, anche a tutti gli altri commissari) riportando direttamente gli estremi del bonifico pervenutomi, in modo che non ci siano dubbi. E i rimborsi dei pasti? Neanche l’ombra, ovviamente.
Adesso io desidererei invitare tutti i funzionari statali che svolgono consulenze, incarichi e altro, a pubblicare nei loro blog o su un social network  qualsiasi o anche in un quotidiano, le somme che ricevono per lo svolgimento degli incarichi loro affidati. Magari scopriamo di essere in buona compagnia e di non essere noi insegnanti i soli contro i quali si esercita il sopruso di uno stato che discrimina tra figli e figliastri?















domenica 22 dicembre 2013

Parole in viaggio.Cinque report dell'inserto di La Repubblica del 13 dicembre 2013

L'inserto di La Repubblica di venerdì 20 dicembre 2013 propone cinque resoconti di viaggio di cinque scrittrici: Concita De Gregorio, Claudia de Lillo (Elasti), Clara Sereni, Paola Soriga e Chiara Valerio. Cinque resoconti-racconti che vale la pena di leggere. Ognuna di queste scrittrici racconta, a suo modo, l'incontro con una donna africana, ciascuna  così distante dal nostro mondo occidentale che viaggia su altri tracciati, ma pure così vicina nelle speranze di una possibilità di sperimentarsi come donna nuova e diversa, ma soprattutto in grado di progettare il proprio futuro.
Le cinque scrittrici riescono ad essere coinvolgenti nel loro modo di rivolgersi e di ascoltare queste donne dalle quali sembrano avere appreso, loro così affermate nel loro lavoro, così realizzate come professioniste, così inserite nel loro mondo affettivo e amicale, un  nuovo pensiero al femminile. E così, ad esempio, Concita De Gregorio fa parlare direttamente Maiuma che narra in prima persona la fatica, il dolore, il sacrificio di una vita spesa per la sua famiglia senza un ritorno affettivo, ma che, scacciata dal marito perché vecchia e malata, ritrova nella danza una nuova forma di felicità e nel prendersi cura di due orfanelli abbandonati, una maternità più grande e più appagante.
Claudia De Lillo invece, con il suo stile tutto dialogato e ironico narra dell'incontro con Claire, una donna africana che non esiteremmo col nostro linguaggio, a definire emancipata, e della quale  la de Lillo dice guarda dritto negli occhi, non chiede ma ordina, non conversa ma istruisce. Se fossimo in Italia la troverei detestabile, ma siamo in Uganda e di donne così non se ne trovano spesso e quindi, dice, diventa il suo supereroe. Questa donna la guiderà ad un ricevimento in cui incontra Esther Madudu, famosa ostetrica ugandese candidata al premio Nobel per la pace  nel 2015, la quale rappresenta l'impegno per  salvare 200.000 vittime annue della gravidanza nell'Africa Sub Sahariana. Il racconto si snoda leggero e divertente pur nelle immagini di un'Africa piena di problemi non risolti, affidati alla volontà determinata di queste donne.
Clara Sereni racconta di Shinaz Alice, infermiera, che dopo un soggiorno di quattro anni  a New York, dove ha seguito il marito militare,  torna in Africa dove entra a far parte di un progetto chiamato Malkia e attraverso il lavoro che svolge, affrancandosi dal bisogno economico,  potrà permettersi di fare gratuitamente l'avvocato dei diritti civili. 
Paola Soriga ci parla di Fatuma, una giovane donna Etiope che studia medicina perché vuol fare l'ostetrica, perché vuole prendersi cura delle donne che per cause, anche banali, muoiono di parto, come  sua sorella più giovane che è morta insieme al suo bambino. Si sente che per queste donne la maternità è il cardine intorno al quale girano le vite di tutte e sembra quasi che solo governando i meccanismi del dare la vita e di aiutare a dare la vita, si possano affrancare dalla sofferenza e dalla subalternità ai loro maschi, supremi detentori del potere sulle donne.
Particolarmente avvincente è il racconto di Chiara Valerio che descrive un ospedale pieno di partorienti dove la vita che nasce ha il sapore lieve e profumato della stessa terra d'Africa e i nuovi nati  sono come frutti prodotti da questa terra rigogliosa che non conosce arresto nel processo della fertilità umana. Bellissime le descrizioni dei bambini appena partoriti e avvolti come in un baco dalla stoffa colorata o , con una felicissima similitudine, stretti come involtini di riso in una foglia di fico. In questo ospedale tutto è ridotto all'essenzialità e anche tra la vita e la morte  non c'è nessuna barriera e nessuna diversità Che la morte è anche vita, dice la Valerio, lo si può constatare della serenità con cui l'ostetrica risponde alla domanda della protagonista che chiede il perché tengano il bambino morto accanto a quello vivo: ma perché è appena nato, ma è nato morto. E poi aggiunge una sua riflessione: "morto" è l'aggettivo di una cosa viva.
Da questi cinque racconti emerge l'immagine di un'Africa al femminile, dove si comprende perché è alle donne che verrà affidato il futuro di questo immenso continente. Un progresso che potrà avvenire solo al femminile. Plurale.


giovedì 19 dicembre 2013

Recita di natale




Mi hanno sempre allietato le recite di Natale che ogni anno in molte scuole, soprattutto private, le maestre organizzano per i bambini e i loro genitori. Mi piace l’atmosfera che aleggia, la contentezza, lo scambio degli auguri tra le famiglie che hanno imparato a conoscersi anche se solo al ritmo degli avvenimenti scolastici, i quali, comunque, creano l’occasione per fare stare insieme i bambini in un rapporto immediato e personale e non , come purtroppo usa oggi sempre più spesso, virtuale.
E conseguentemente , in occasione delle fese natalizie, in po’ prima della chiusura delle scuola, le recite costituiscono motivo di incontro e  preludio a tutte quelle attività mangerecce e spenderecce cui tutti, chi più chi meno, ci dedichiamo in questo periodo.
In questa atmosfera mi è capitato di partecipare alla recita organizzata dalla scuola elementare frequentata dalla mia nipotina. Nel mio ruolo di nonna non potevo tirarmi indietro e mai l’avrei fatto se non altro per la gioia e l’orgoglio di vedere la mia piccola bambina in mezzo a tutti  gli altri compagni, pronunciare qualche battuta e con questo affermare il suo ruolo di appartenenza.
Benissimo. Vado quindi a questa recita che si dà in un luogo storico  e famoso della città che, se non fosse stato per l’umidità che trasudava dalle massicce pareti a dall’alto soffitto, avrebbe potuto dirsi perfetto.
La maestra che tiene il corso di teatro -corso extracurricolare e quindi, vista la natura della scuola privata, a pagamento, al di fuori della retta scolastica- nell’introduzione incipitaria del pomeriggio teatrale, ci tiene a precisare che l’obiettivo per lei più importante non è la recita in sé, quanto, viceversa, la possibilità di stare tutti insieme, genitori, bambini, nonni e famiglie allargate di tutti i tipi. Bello, mi dico, ecco finalmente lo Spirito Di Natale che aleggia autentico, anche se in un’occasione preparata ad arte, ma comunque sempre significativa e produttiva di sentimenti positivi.
C’è un’allegra confusione, i bambini della primaria sciamano nell’area della cripta della chiesa sconsacrata, luogo, appunto, designato per la recita. Peccato però. Non si vedono tutti, poiché il  pavimento della suddetta chiesa non è stato dotato  di un rialzo posticcio in legno. Ma pazienza. Dalla mia postazione intravedo qualche bimbo e bimba ma soprattutto vedo molto chiaramente una foresta di teste di mamme e papà  qualcuno dei quali ha ignorato l’invito della maestra, di spegnere il cellulare. Con l'effetto  che la suoneria intervallerà abusivamente la recita dei bambini.
Inizia lo spettacolino: i bambini si dispongono a semicerchio. Sono in molti. Presumo le classi al completo. E’ bellissimo vederli, o meglio, sentirli cinguettare allegri e ciarlieri prima dell’inizio. Poi, di colpo, silenzio. Si abbassano le luci, si accendono i riflettori: è l’inizio. Entra in scena la maestra e spiega agli astanti che ciò che verrà rappresentato non sarà la nascita di Gesù, ma tutta la preparazione all’avvento salvifico, narrato nei Vangeli Apocrifi. Ci verranno mostrate  alcune scene tratte dal racconto della vita di Anna e Gioacchino, genitori di Maria e di Maria Vergine stessa all’atto dell’annunciazione dell’Angelo. La nascita di Gesù verrà raccontata solo attraverso l’affabulazione dei pastori. E questo, richiedendo un gran numero di personaggi, consente alla maestra di fare recitare tutti i  bambini. Ottima intuizione! mi dico, e mi predispongo al godimento.
Iniziano subito ad entrare in scena alcuni bambini nel ruolo di angeli messaggeri che raccontano, credo senza alcuna mediazione divulgativa, direttamente con le parole dei testi di riferimento, la storia di Anna che si duole di non avere ancora avuto  il beneficio di una maternità e che quindi ritiene di essere la più sfortunata tra tutte le donne. Anzi, tra tutto il creato, in considerazione che sia la terra che  l’acqua e  tutti gli animali, a suo dire, sono fecondi e lei invece no. Continua la scena, sempre intervallata da bambini-angelo che raccontano, con la lingua aulica e desueta del testo, fatti di cui presumo ignorino totalmente il significato e che anzi, sempre presumo, non comprendano affatto. Proseguono le scene, intervallate da piroette dei bambini più piccoli, forse della prima classe, che gli angeli vanno a sollevare dal pavimento tenendoli per mano e invitandoli a mimare ciò che viene raccontato a parole. L’effetto, su di me, è devastante. Scorgo infatti i piccoli visi sorridenti dei bambini che, tra una battuta e l’altra, parlano tra loro ridendo nell’autentico loro ruolo di bambini. La recita va avanti. Adesso è Maria che entra in scena e descrive, in tono affabulatorio, il miracolo della sua fecondità senza avere mai conosciuto uomo, al cospetto di Giuseppe che, piuttosto incredulo e perplesso, informa Maria che sarà costretto ad abbandonarla fuori dalle mura della città, perché, dice, -Maria conosci anche tu la legge-  e quindi ne cerca il consenso per l’azione di per sé esecrabile che è costretto a commettere. Ma poi la cosa rientra, perché Giuseppe decide diversamente, tenendo Maria con sé come tutti sappiamo, tranne i bambini che ci raccontano questa storia di cui, presumo sempre io (ma posso sbagliarmi, naturalmente!), è molto probabile che non abbiano afferrato precisamente il significato.
E poi il gran finale: il racconto da parte dei pastori del viaggio di Maria e Giuseppe verso Betlemme e le considerazioni sulla stella cometa e sull’attesa del Natale di Gesù. In mezzo all’attenzione silenziosa di mamme, papà, nonni, fratelli maggiori, ecco che i bambini-pastori raccontano:  tutte le cose venivano distratte dal loro corso, descrivendo l’aspettativa del creato in cui si inserisce anche questa considerazione: io sono il vento, prima soffiavo e poi non soffiavo più,  e il bambino-angelo annunciatore: vi porto una lieta novella…questo vi servirà di segno. E finalmente lo stesso bambino-angelo ad evento concluso, ci informa:  e la madonna disse:- tu sei messo al mondo per meravigliare-! A queste parole fanno eco tutti gli altri bambini-pastori, riflettendo tra loro sul miracolo del loro stesso viaggio verso la grotta, della quale ovviamente si tace durante tutto il racconto,  con queste parole: come spinti da una mano leggera ci siamo incamminati. Faccio un po’ di fatica immaginare i bambini-pastori che si sentano spinti da una mano leggera. In effetti subito dopo danzano tutti insieme al suono di una musica rock, pietosamente inserita forse per dare un tocco di spontaneità a tutta l’esibizione  che contrasta vivacemente con tutto ciò che era stato rappresentato prima. I genitori fanno ala a tutti i bambini accompagnando con applausi modulati sulla musica rock.  E infine  i settanta e passa bambini, a turno si inchinano platealmente al pubblico per raccogliere ancora applausi per se stessi e per la loro  brava maestra di teatro. La quale, come poi mi hanno informato, aspirando al ruolo di regista di teatro contemporaneo, ha raggiunto l’obiettivo citato in apertura, quello, cioè di far stare tutti insieme.
Insieme, sì, ci siamo stati ma forse nel modo meno autentico possibile?
Non saprei. Guardo i bambini: hanno l’aria di essersi divertiti. Guardo le mamme: sembrano orgogliose dei loro pargoli. Guardo la maestra: sembra moooolto soddisfatta. E’ stata anche omaggiata di un bel mazzo di fiori!
Ecco, mi dico, sei sempre tu la solita outsider. Che ti aspettavi? Tuscendidallestelle? Oppure astrodelciel? O che magari i bambini, parlando nella loro lingua abituale, facessero gli auguri ai loro genitori con le loro melense canzoncine? Ma che antica!

 E su questa riflessione,  mi avvio mestamente verso l’uscita.

Maria Rosa Giannalia

martedì 17 dicembre 2013

Quando i negozi diventano musei. Storia di un pellegrinaggio natalizio

Volentieri pubblico questo report sugli acquisti natalizi pervenutomi da una mia amica.


Quando i negozi diventano musei. Storia di un pellegrinaggio natalizio


Si approssimano le feste. E così, con mio marito ci dedichiamo alla paziente ricerca di un nuovo albero di Natale e battiamo a tappeto i centri commerciali della zona. Tra i requisiti richiesti, un prezzo ragionevole, un’altezza contenuta ma non lillipuziana e soprattutto un aspetto “polposo e realistico” in modo da sostituire egregiamente l’alberello spelacchiato che per ventidue anni ha onorevolmente campeggiato nell’ingresso di casa. Al quarto tentativo, giungiamo in un grande magazzino che opera in franchising e adocchiamo quello che fa al caso nostro. A parte l’albero in bella vista, non si vedono però, le scatole ancora chiuse dello stesso articolo destinato alla vendita. Immaginiamo che, per una questione di ordine, le abbiano occultate in magazzino e, su richiesta, un efficiente commesso sia in grado di reperire l’oggetto dietro le quinte. Ce lo giochiamo a dadi con un’altra coppia interessata e insieme ci rechiamo all’ufficio informazioni dotato di computer per scoprire che, a un mese dal Natale:
-l’albero in bella mostra è l’unico;
il computer ne individua in giacenza altri due, ma non sono in magazzino;
-nessun commesso si preoccupa di individuarne l’ubicazione;
-l’altra coppia getta la spugna e si avvia tristemente verso l’uscita, ma non noi: non avremmo mollato -l’osso senza pervenire a motivazioni che potessero apparire ragionevolmente logiche;
-ingaggiamo una strenua lotta con l’angelica speranza d’arginare il tentativo barbino delle poco solerti commesse di ostacolare la nostra vena scialacquatrice e la verve creativa fissata per quel fine settimana;
-alla richiesta di poter ritirare quello esposto si scatena un ping-pong piuttosto serrato con un susseguirsi di domande e risposte:
1.L’albero esposto non può essere venduto.
- Perché mai?
2.E’ lì come allestimento.
- Beh, in questo caso appare come uno specchietto per le allodole. Si espone solo ciò che può essere venduto e siccome l’articolo ha punzonato in uno dei suoi rami il cartellino con codice e prezzo significa che può essere acquistato.
3.No, l’allestimento non può essere scomposto prima di aver sentito il responsabile.
- Possiamo contattarlo?
4.No, verrà nei prossimi giorni e comunque l’albero non potrà essere venduto prima di lunedì perché quell’area resterebbe spoglia.
- Bene, possiamo allora rintracciare gli altri due alberi in giacenza? Ne vedo uno oltre le casse in buona compagnia di altri tre pini di varie dimensioni.
5.No, neanche quello può essere toccato. Ritornare lunedì mattina.
- Lunedì mattina non posso, sono al lavoro.
6.Allora lasci pure nome e numero di telefono e verrà contattata.
Sfiancata, eseguo e desisto. Dopo aver tentato ogni ragionevole espediente, non resta che considerare questo luogo, non un punto vendita, ma un museo. Ebbene sì, gli oggetti sono in mostra per essere ammirati come opere d’arte non acquistati, chiaro. Ma che mai ci sarà saltato in mente…
La missione è proseguita spostando la ricerca fuori provincia e finalmente, approdiamo in un ennesimo centro commerciale dove acquistiamo, al volo e senza alcun fantasioso battibecco, l’ultimo albero di Natale esposto, risparmiando dodici euro.
E, dopo dieci giorni, siamo ancora in attesa d’esser contattati dalle commesse del noto negozio in franchising per ritirar l’albero di Natale. Chissà a quale lunedì si riferivano…
Una domanda sorge spontanea: sarà pur vero che la pazienza è la virtù dei forti, ma non è che la mancanza di elasticità mentale sia la virtù degli inetti?
Con questo dubbio, siamo giunti ad alcune inconfutabili certezze:
· ci sono punti vendita che sono come il Louvre: si entra per guardare e non per desiderare e acquistare;
· le commesse esistono in quanto devono adoperarsi nell’encomiabile opera di allestimento al fine di ricevere i lusinghieri apprezzamenti del responsabile del reparto;
· il responsabile del reparto è una temibile entità, la sua presenza aleggia minacciosa e viene retribuito per non esser disturbato;
· i clienti, quando si trasformano da semplici osservatori in reali acquirenti, sono d’intralcio al fine sopra descritto e devono essere invitati a desistere costasse anche qualche conseguente francesismo o viperesco commento dei rinunciatari forzati;
· alcuni addetti alle vendite ritengono che il messaggio dello spot: “Fate girare l’economia” debba tradursi in un invito a mettere in atto una zelante e pia opera che possa far girare i clienti affinché essi girino i loro denari in altro luogo;
· la trasformazione in Don Chisciotte sarà pur nobile, ma sostanzialmente è improduttiva;
· se una commessa promette che richiamerà il cliente, ricordarsi che non si tratta di una promessa di matrimonio: non sperare, non fantasticare e non attendere dietro la cornetta;
· anche se la vista dell’albero è stato un autentico colpo di fulmine, si può chiudere senza rimpianti la porta perché, se è vero che si aprirà un portone, l’oggetto dei desideri ci attende a braccia aperte o meglio, a rami spiegati e a minor prezzo, altrove.
Luisa Angh

sabato 14 dicembre 2013

Cani e padroni e padroni cani




Sarà che, da quando sono in pensione, il tempo non mi possiede più e posso spenderlo come mi pare, sarà che, spesso, mi interrogo sull’utilità  di andare per palestre a recuperare un po’ di quella forma fisica persa e mai compiutamente recuperata, fatto sta che ho preso la decisione di affrancarmi da ogni costrizione temporale che mi vincola ad orari precisi. Basta con questa schiavitù di orologio, mi son detta. Faccio da me come e quando voglio io.
Pertanto, ogni mattina ad orari mai uguali, scendo giù nel parco antistante casa mia e vado a correre. Correre non sarebbe proprio il verbo giusto. Diciamo, camminare velocemente. Questo mi consente di soffermare lo sguardo su piccole porzioni di spazi, su oggetti, su persone che, nella mia prima vita, posseduta dalla fretta ineluttabile del mio lavoro, non esistevano per me.
Considero, questo, un privilegio. Un privilegio che viene dato a chi ha la fortuna- oggi sempre più rara e per questo più preziosa- di potere occupare quella porzione di vita post lavorativa in attività che abbiamo sempre rimandato ad un altro momento e ad un altrove che qualche volta non fanno in tempo  neppure ad arrivare  e rimangono sospesi in un limbo di desideri irrealizzati.
Adesso io posso, mi sono detta. E’ arrivato per me questo tempo.
Ed è così che ogni mattina, a meno che fuori non ci sia il diluvio, vado a camminare.
Prima c’è la preparazione psicologica che faccio su me stessa non senza fatica. Il mio carattere pigro mi imporrebbe di starmene a casa in vestaglia e pantofole a saltellare su internet alla ricerca di notizie del giorno, di politica e di attualità, di curiosità varie, di aprire la mia pagina di facebook e vedere quali post hanno inviato i miei amici e conoscenti, rispondere o, eventualmente, a seconda della pregnanza intellettuale del messaggio, cancellare.
Questo farei se dovessi ascoltare senza sensi di colpa il mio desiderio più immediato. E invece no. In un impeto di masochismo, mi forzo a indossare scarpe da tennis recentemente acquistate con particolare attenzione al colore rigorosamente bianco, retaggio di una mentalità adolescenziale legata ai miei studi in un collegio di suore domenicane che avevano sperimentato solo il bianco e il nero della gamma cromatica, e alla forma del plantare, comodo, efficace a dare la dovuta spinta al piede che dovrà sollevare il peso non particolarmente leggerissimo  del mio corpo. E infine maglietta di cotone e tuta da ginnastica. Così bardata ( e anche un po’ fiera di me per avere avuto la meglio sulla mia innata pigrizia) mi avvio al suddetto parco che, al mattino profuma di erba appena tagliata e di siepi di alloro e rosmarino. Confesso che mi sento riappacificata con me stessa e mi congratulo anche un po’ per la mia determinazione.
In genere nel parco incontro altre persone avanti negli anni, anch’esse affrancate definitivamente da obblighi lavorativi, uomini e donne che con me condividono il piacere della camminata mattutina.
Per raggiungere il portoncino d’ingresso al parco devo percorrere un centinaio di metri di marciapiede perimetrale alla strada, meticolosamente sbreccato e sconnesso - e mai risistemato – nei passi carrabili, dalle ruote delle auto che accedono ai parcheggi dei palazzi e invaso dai cassonetti  della raccolta differenziata dei rifiuti. Ed è in questa breve camminata che si compie la prima di una lunga serie di penalità che devo necessariamente scontare. Infatti le mie scarpe immacolate, senza il benché minimo sospetto da parte mia, a causa della baldanza con la quale mi avvio, si vanno dolcemente a posare su un non so che di morbido, appiccicoso, marroncino che conferisce una macchia di colore a tutto quel biancore  in modo che acquistino una precisa connotazione alla vista e all’odorato. E fin qui, me la cavo con un semplice vaffa generalizzato, per l’assenza e quindi la difficoltà di individuare il vero responsabile dell’obbrobrio. Ovviamente non mi fermo, proseguo nel mio intendimento ed entro nel parco dove, i profumi sopra descritti, vengono un po’, come dire, corretti dal più recente olezzo che mi trascino dietro mio malgrado. Il parco è grande, è contornato da tanti vialetti in cemento più stretti e più larghi per facilitare il transito di tricicli e biciclette dei bambini ai quali in effetti esso è dedicato. In queste ore mattutine, però, il parco non ottempera a questo suo principale compito, perché tutti i bambini sono a scuola. Ci siamo noi, i camminatori indefessi. Ma non siamo soli. Molto più spesso i vialetti si popolano, a ore diversificate, di altro genere di ospiti: i cani e i loro padroni. Questi ultimi portano, come è giusto che sia, i loro amatissimi amici a quattro zampe in giro per il parco, dopo, presumo, rigoroso giro dei marciapiedi di cui ho già parlato, e lì si incontrano tra loro e hanno anche modo di stazionare in piacevoli conversari sulla vita, sui comportamenti, le abitudini, le affettuosità dei loro cagnolini o anche cagnoni a seconda della mole. I padroni dei cani hanno lo stesso  atteggiamento che i genitori hanno per  i loro figli. Cosa encomiabilissima, anche perché questi animali, al contrario dei figli, non criticano, non disubbidiscono, non fanno di mai di testa loro e soprattutto non abbandonano. Sono affettuosi compagni di tutta la vita. Ecco perché un cane è per sempre, come certi diamanti pubblicizzati nelle copertine satinate dei giornali. E soprattutto riempiono la vita. La loro, quella dei padroni cioè. Ed è anche giusto che sia solo la loro ad essere riempita. E invece no. Pretendono, questi padroni, che questi loro affettuosissimi animali  riempiano anche la vita di tutti gli altri. Ed è così che, ad esempio,  il camminatore mattutino, mentre scarpina sudaticcio e col fiatone, si ritrova, quando meno  se lo aspetta, a fare delle zigzagate sull’erba bagnata per schivare tre o quattro cagnetti che hanno deciso di darsi appuntamenti galanti proprio all’incrocio dei vialetti, mentre i loro padroni, nella più totale indifferenza, guardano un punto lontano dell’orizzonte, immersi in profonde riflessioni filosofico-esistenziali o chiacchierano amorevolmente con altri proprietari di cani raccontandosi vicendevolmente l’ultimo episodio particolarmente avvincente della vita del loro cucciolo. Càpita anche che , mentre costoro sono immersi nelle loro profonde meditazioni, il cucciolotto o cagnone che sia, con il guinzaglio ben allentato, depositi il suo naturale lascito all’angolo dei muretti o, peggio, su un vialetto stretto ben ombreggiato dalle siepi che occultano pietosamente il regalo di cui usufruiscono però gli ignari camminatori mattutini, ovviamente e inopportunamente distratti dalla fatica fisica. I padroni sono ben lontani dal prendere in considerazione questa evenienza, perché sanno benissimo a quale obiettivo mirino i loro cani, ma non è cosa che li interessi. Sono scesi per questo dai loro appartamenti, presumo, pulitissimi, per far depositare le merde dei loro cani in qualsiasi altro luogo che non sia di loro proprietà. Quelle merde non li interessano, non sono cosa loro, ma di tutti. Gli altri, naturalmente. Una piccola busta di plastica, una palettina, no, troppo pesante. Intaccherebbe la loro leggerezza e sicuramente li distoglierebbe dalle loro meditazioni filosofiche.
Questa centralità del cane nell’universo vitale di certi padroni prelude senz’altro ad un ribaltamento di ruoli. Fino a provocare l’interrogativo: sono padroni di cani o padroni-cani? La prima  definizione presumerebbe un senso di civiltà quando venissero rispettati i diritti dei cani e i doveri dei padroni, la seconda invece è esplicativa del senso di civiltà reale di questi individui: pari allo zero.  Va da sé a questo punto, poichè tali padroni-cani sono molto più diffusi di quanto si creda, pensare che siano del tutto infondate le proteste nei confronti dei politici che non si curano del bene comune, che fanno solo i loro sporchi interessi, che si adoperano per il loro particolare. Ma perché meravigliarci?  Perché? Sono  il nostro specchio, sono le nostre immagini riflesse. Ci rappresentano a meraviglia. Perché chi non sa raccogliere gli escrementi del proprio cane per non infastidire il prossimo, non è autorizzato a infastidirsi della merda metaforica che gli piove in testa. Tutti i giorni.


 

mercoledì 11 dicembre 2013

Etichette


Ci dev’essere una forma di perversione nella produzione di tutte le aziende tessili, ma soprattutto di quelle che producono confezioni di tutti i tipi, per adulti, per bambini, per donne e uomini di tutte le età. E’ una perversione che le ditte esercitano in modo democratico, senza distinzione di alcun tipo, proprio come recita l’articolo tre della nostra costituzione. E bisogna dare atto ai manager di queste aziende che, in questo senso che adesso vi dirò, non fanno mai discriminazioni nell’appiccicare le etichette a qualsiasi forma di abbigliamento.
Viene da sé pensare che ciascuna azienda voglia non solo specificare l’origine del prodotto- molti, potendo, ne farebbero volentieri a meno, considerato che  ormai poco o nulla  è prodotto in Italia-, la bontà, la fattura, la qualità ma anche il marchio di fabbrica, il nome o quello che in gergo si chiama la griffe. Si sa che il Consumatore Modello trova molto più chic comprare un capo di abbigliamento griffato, anche se  lo acquista in un qualsiasi outlet a meno della metà del prezzo  pubblicizzato nelle riviste patinate. Ma il Consumatore Modello ci tiene a far bella mostra del marchio, pensano le aziende, quel marchio che  lo distinguerà da tutti gli altri milioni di Consumatori Modello sparsi per il mondo che, a loro volta, vogliono distinguersi come lui nella scelta del loro personale capo di abbigliamento. Questo è più o meno quello che pensano i manager delle aziende di abbigliamento. E qual è il posto più consono per fare trionfare il marchio di fabbrica? Qual è la personale vetrina che ciascun Consumatore Modello deve portarsi in giro  ogni giorno per pubblicizzare il marchio che lo configurerà come acquirente chic, più elegante degli altri consumatori? Facile. Il posto migliore è esattamente alla base del collo, nella parte centrale della scollatura posteriore  di maglie, maglioni, camice, camicette, magliette, abiti, vestiti eleganti, sportivi, vale a dire di tutto  ciò che viene indossato. E nelle canottiere e maglie intime, quando la scollatura posteriore non coincide con la base del collo, allora gli stilisti, i designer o i decisori di politiche di produzione, pensano che sia molto efficace, per pubblicizzare i prodotti, attaccare le etichette o sul centro delle scollature che andranno a posarsi esattamente al centro del dorso, oppure, spingendosi fino alla massima raffinatezza, attaccando le stesse o sotto la scollatura delle maniche in modo che vadano a sfregare con il  loro tocco taumaturgico le ascelle, oppure nella zona tra la vita e l’anca sinistra.
 Perché poi venga scelta questa parte sinistra anziché la destra, rimarrà un mistero o potrà spiegarsi solo con un’analisi storico-morale-religiosa-escatologica che individua in tutto ciò che è sinistro uno strumento e una modalità  di castigo finalizzati a redimere l’anima umana rendendo degno ciascuno di noi della vita eterna. Infatti con l’etichetta-strumento-di-tortura avremo già scontato i peccati in questa vita terrena.
E così ci portiamo addosso tutte le nostre belle etichette. Le quali, a ben pensare e solo dopo l’uso prolungato che facciamo dei nostri capi di abbigliamento, diventano strumenti di tortura tenaci ancorché subdoli e apparentemente innocui, anzi, addirittura gratificanti.
Qualcuno di noi si spinge a osare di tagliarle con le forbicine della manicure, magari dopo avere indossato il capo per una settimana ed essersi grattato il collo o l’ascella o il fianco fino a fare grondare di sangue la pelle e avere macchiato, e non sempre smacchiato, i capi di cui sopra. Ma…non basta. La perversione dei nostri  produttori si spinge ben oltre. Non si deve pensare di potersela cavare con così poco, naturalmente. Che basti cioè l’intervento di un paio di forbicine risolutorie ad eliminare il problema. Le aziende ci tengono molto a che i loro prodotti portino il marchio distintivo fino alla fine. Non si specifica di quale fine si tratti o del capo  o del Consumatore Modello. Ma come fanno questi decisori di politiche di marketing ad assicurarsi che i tentativi di eliminare le malefiche etichette cadano nel vuoto? Semplicissimo: fanno affidamento sulla pigrizia del Consumatore  Modello. Credo anzi che commissionino a stuoli di psicologi lo studio particolareggiato del comportamento del Consumatore e della Consumatrice medi: costoro acquistano i loro capi di abbigliamento dopo una scelta accuratissima di modelli alla moda, marchi, griffe e meno accurata della qualità e della composizione dei tessuti, meglio se sintetici così non si stirano, e che infine non debbano richiedere alcun altro intervento se non quello di entrare e uscire dalla lavatrice e dall’asciugatrice; nei nostri climi, dallo stenditoio sistemato sul balcone o sul terrazzino del soggiorno. Questo è il massimo che ciascun Consumatore Modello si sente di fare per il trattamento dei propri capi di abbigliamento. I quali pervicacemente resistono alle alte temperature, tutt’al più  cambiano colore a seconda della perizia di chi in famiglia si occupa di fare le lavatrici previa rigida o raffazzonata ripartizione sulla base dei colori. Poi più nulla. E le etichette? O non vengono considerate moleste, almeno sulle prime, e allora rimangono attaccate ad libitum o, pur essendo considerate moleste, vengono lasciate sul posto, poiché il Consumatore Modello preferisce soffrire piuttosto che dovere spendere  una decina dei suoi preziosissimi minuti a tagliare le etichette malefiche di cui sopra e, soprattutto, a scucire e ricucire i bordi. Perché, e questa è la perversione sicuramente decisa a tavolino dai manager di cui si è detto, le etichette vengono passate a macchina e attaccate ai capi, non dopo la confezione dei bordi, ma durante. In modo che chiunque si azzardi a tagliarle, dovrà poi scontare una pena ben dura: ricucire i bordi slabbrati dei vari capi. Oppure andarsene in giro con spaventosi buchi dappertutto, financo nelle mutande e nelle canotte intime. E chi di noi, ligio agli insegnamenti di madri e nonne amorevoli non penserà tra sé: e se mi càpita qualcosa in strada, che so, un malessere improvviso, e mi devono portare all’ospedale, che figura ci faccio col buco nelle mutande?
E così i Signori del Nostro Consumo continuano o torturarci. E pure a nostre spese.

Maria Rosa Giannalia

giovedì 5 dicembre 2013

Così è la vita

Così è la vita di Concita De Gregorio- Einaudi editore. Torino, 2013.



Ho appena finito di leggere  Così è la vita di Concita De Gregorio- Einaudi editore. Torino, 2013.
Il tema che affronta questo libro, la morte, è di quelli che , detto così, tutti rifuggono e se fosse apparsa in copertina, che so,  la parola “morte”, forse  in pochi l’avrebbero acquistato. E invece c’è molta vita dentro queste pagine. Anzi, la vita stessa.
Con coraggio, Concita De Gregorio non solo parla di questo passaggio obbligato che nella nostra società viene artatamente nascosto, dimenticato, accantonato in posti non visibili, ma le sue parole attraversano così leggere ognuna delle centodieci pagine, che quando sono arrivata alla fine avrei voluto che contenesse altre trecento pagine da potermi gustare con la stessa leggerezza, con la stessa dolcezza.
La De Gregorio dà al suo saggio sull’idea della morte, la forma di un libro di racconti brevi. Il primo dei quali inizia proprio dall’ultimo atto, il funerale, descritto come avvenimento da immortalare addirittura con una cinepresa, perché i sentimenti che accomunano gli astanti, in quella occasione lì, sono autentici essendo occasione di incontro tra persone accomunate dall’amore o dall’amicizia e che per un’ora o un intero pomeriggio trascorrono insieme un tempo da dedicare ai ricordi condivisi.
Il libro procede sempre con grande leggerezza attraverso le diverse forme con le quali la morte è percepita dai vivi. Ci riconosciamo tutti  in quelle sue parole, quando specialmente descrive quanto nella nostra società, si faccia di tutto per nascondere il dolore, la vecchiaia, la morte e quanto invece prevalga l’idea dell’eterna giovinezza, del successo, della bellezza a colpi di bisturi e di diete. E soprattutto quanto poco se ne parli ai bambini, come se la morte non fosse anche affar loro come lo è di tutti.
Descrive la De Gregorio tanti episodi in cui la morte è stata non cancellata, ignorata, dimenticata, ma al contrario accettata come  parte integrante dell’esistenza umana, citando una serie di casi in cui l’evento viene vissuto coralmente, perché, “ il dolore quando non è condiviso diventa rabbia e disperazione”, come dice il papà di una bimba morta alla quale i genitori dedicano un concerto per quello che sarebbe stato il suo terzo compleanno. La morte di Lulù - è il nome della bimba- diventa pretesto per la raccolta di fondi per un ospedale  pediatrico in Angola.
Sono tanti esempi e episodi raccontati con commovente semplicità che spaziano da episodi di vita vissuta dalla stessa autrice a libri, soprattutto per bambini, in cui si parla della morte  come elemento di rinascita ai sentimenti di vita in funzione degli altri. Bellissimo il capitolo dedicato al film Departures uno dei pochi, se non l’unico che parla della composizione e preparazione del corpo prima della cremazione. Così carico di delicatezza e di poesia che forse solo un giapponese poteva concepire.  
Piace  il tono sommesso, quasi sussurrato con cui la De Gregorio racconta nell’ultimo capitolo la storia del bambino innamorato dei videogiochi, che deve partire da solo in un posto dove gli aggiornamenti dei videogiochi arriveranno da soli direttamente nel suo computer, come gli dice il suo medico e dove  egli stesso potrà diventare addirittura l’eroe protagonista dei suoi giochi preferiti. Il ritmo del punto di vista del bambino che racconta in prima persona con frasi brevi ed essenziali, scorre leggero dall’inizio alla fine delle tre pagine in cui consiste questo ultimo racconto che chiude la serie narrativa. E veramente è con rimpianto che si chiude l’ultima pagina del libro, il rimpianto che si sia concluso.
Però in calce c’è una bibliografia ragionata di libri a cui la giornalista ha attinto per la sua  scrittura. Libri che possiamo consultare anche noi per dare continuità alla leggerezza con la quale pensare questo evento che spesso non osiamo neppure nominare.


Unico elemento un po’ fuori tono è il capitolo dedicato alla dieta Ducan, sicuramente inserito ad esempio di supporto  dell’inutilità del nostro continuo arrabattarci per avere e mantenere una linea perfetta, come ce la impone la televisione. Ma qui il ragionamento perde un po’ la sua forza persuasiva e la leggerezza con la quale l’autrice descrive un incontro col famoso dietologo, svia un po’ l’attenzione del lettore che percepisce un estraniamento strutturale del capitolo a ciò dedicato.

mercoledì 4 dicembre 2013

Rapporto di una professoressa al suo dirigente dopo il viaggio d’istruzione

Rapporto di una professoressa al suo dirigente dopo il viaggio d’istruzione
Itinerario: Sicilia 13-18 Aprile 2007
Docenti accompagnatori: proff. Tizia, Caio, Sempronio, 
Classi IV e V liceo


Primo giorno:
 Le classi in oggetto insieme ai rispettivi docenti si ritrovano al porto di Cagliari per l’imbarco sulla motonave Toscana della Tirrenia alle ore 18.00
Da  subito la serata si annuncia piuttosto critica: un fortissimo vento di maestrale  accompagnato da una leggera ma fredda pioggia fa presagire che la partenza slitterà di qualche ora. I genitori degli alunni chiedono preoccupati informazioni ai docenti  i quali sono del tutto ignari di quando e se la nave potrà partire, ma tentano di rassicurali dicendo che si informeranno non appena a bordo. I loro figli tramite cellulare potranno riferire. I genitori sanno infatti che i loro figli maschi dovranno viaggiare non in cabina ma in poltrona, come da avviso preventivo dell’agenzia organizzatrice con rimborso di parte della somma pagata dalle famiglie per il viaggio stesso.
L’arcano fatto del cambiamento di sistemazione da cabina a poltrona, si comprende  infatti dalla presenza della nave messa  a disposizione della Tirrenia S.p.A. per questa tratta: una nave container che risulta avere solo la metà dei posti rispetto alle  altre navi di linea.
Appena a bordo  i docenti apprendono che la nave ritarderà di alcune ore, forse partirà verso la mezzanotte a causa del maltempo. Docenti e alunni comunque si predispongono all’attesa, ben consapevoli che  il comandante della nave in questione opererà per il meglio dei passeggeri e non metterà a rischio la loro incolumità.
Intanto, a bordo, gli studenti hanno tutto il tempo per sistemarsi, per mangiare i panini che hanno portato con sé e per socializzare. Trascorse le cinque ore di dilazione rispetto alle 19.00, orario previsto per la partenza e non vedendo ancora alcun movimento che preluda ad un avvio di partenza, i docenti vanno chiedere spiegazioni al commissario di bordo il quale risponde che il bollettino testé arrivato, sconsiglia vivamente la partenza a causa del mare forza 10. Pertanto la partenza è rinviata al mattino e precisamente alle ore 6.00 previa lettura del successivo bollettino del mare.
I docenti informano puntigliosamente tutti i loro studenti i quali cominciano a dare segni di irrequietezza, considerato che hanno già consumato la gran parte delle vettovaglie e hanno provveduto a socializzare a sufficienza. Infatti le cabine già trasbordano di valigie, borse, asciugamani, piastre per i capelli, lacca, profumi, saponi vari, lettori mp3 , Cd di musica rap, havy metal e quanto altro si può immaginare per il confort delle scolaresche. Il tutto in un amalgama di odori e colori dai quali a stento emergono a tratti  le teste e i visi.
Il termine “socializzazione” non è comunque del tutto appropriato in quanto  alcune studentesse  provvedono a litigare tra loro per una ripartizione discriminatoria, a loro dire, dei posti in cuccetta.
Le due docenti cercano di sedare le risse, a stento vi riescono, ma non riescono a ricostruire l’atmosfera gaia del primo momento.
I ragazzi si dispongono a passare comunque la notte e infine , esauriti le liti, i discorsi, gli schiamazzi, gli epiteti poco raffinati, affranti dall’attesa e dall’esiguità degli spazi, cadono addormentati in posti rigorosamente diversi da quelli loro assegnati in precedenza.

Al mattino successivo, dopo tre ore circa dalla partenza, si segnalano i primi malesseri: chi si alza e accusa una leggera nausea, chi si fa accompagnare dal medico di bordo per un conforto farmacologico, chi si dispera perché è già la terza volta che dà  di stomaco nell’angusto spazio del bagno in cabina, chi infine rimane sdraiato a letto in apparente coma , pallido e distrutto dalla nausea. Alcuni tra gli studenti confessano, presi  dalla contingenza della situazione, di non avere mai viaggiato prima sulla nave. I docenti vorrebbero potere portare conforto materiale e morale, ma anche loro non si discostano dagli stessi sintomi  sopra descritti, ad eccezione del ricorso al medico di bordo, il quale chiamato, fa un’apparizione spettrale, essendo egli stesso in preda ad un violentissimo mal di mare.
Tutta la nave , ovunque, presenta lo stesso panorama di ragazzi in coma buttati per terra o in poltrona, ad eccezione di due studentesse e di uno studente che, viceversa, continuano a mangiare, gironzolare, chiacchierare , dando manifestamente prova di divertirsi alla grande.
Tale situazione dura ininterrottamente fino alle  20.30 del 14 aprile , ora in cui finalmente la nave attracca al porto di Palermo. Lì docenti e studenti trovano ad attenderli due autisti dei pullman prenotati in preda all’ansia dell’attesa anche per loro snervante. Lì , come Dio vuole, dopo la sistemazione a bordo, previe liti e schiamazzi per sistemare le valigie nel bagagliaio, si parte alla volta di Agrigento, dove in hotel si cenerà e si dormirà per quella notte, saltando  definitivamente il programma precedentemente concordato e cioè la visita a Segesta e a Selinunte, nonché la visita notturna alla Valle dei templi.
Finalmente alle 22.15 in punto si arriva presso l’albergo. Qui docenti e studenti vengono accolti simpaticamente da personale e camerieri che ammanniscono la cena. Gli studenti che nel frattempo hanno avuto il tempo di dormire un po’ in viaggio, ristorati dalla cena, buona in verità, alle 23.30 , hanno accesso alle camere e dopo i litigi, oramai consolidati dalla prassi, per la sistemazione delle ragazze che ahimè non possono stare tutte assieme nello stesso piano  rigorosamente suddivise per classi come si aspettavano ma in condivisione con altre compagne di altre classi , nonostante la socializzazione dell’attesa avvenuta con evidenti scarsi risultati,   si rassegnano a posare i voluminosi e numerosissimi bagagli, consapevoli che in quelle stanze non metteranno comunque piede per una buona parte della notte.
Infatti tra le due e le tre del mattino, gli schiamazzi uniti allo strepito dei lettori mp3 a tutto volume, richiamano l’attenzione del portiere di notte il quale invita i docenti, che ormai sono stremati a forza di andare su e giù per i corridoi, a “vigilare” sulla disciplina degli studenti.
Verso le cinque del mattino, finalmente un gran silenzio invade l’albergo. Tutti dormono.

Secondo giorno
Alle 8.30, dopo la colazione, durante la quale ogni ragazzo e ragazza ha avuto modo di constatare che il latte è freddo, non ci sono biscotti, non ci sono yogurth ( per le ragazze in particolare), il caffè è una nera brodaglia, il pane fa schifo, e via di seguito con analoghi apprezzamenti, verso le 9.30 ci si avvia con i pullman verso la Valle dei templi per la visita che avrebbe dovuto essere effettuata il giorno precedente.
I docenti e gli autisti si consultano sul da farsi: Valle dei templi e pranzo in ristorante e subito dopo visita alla villa del casale o invece solo visita alla valle dei templi e dopo pranzo direttamente Taormina da visitare prima di cena? Si decide per la prima soluzione, confortati dal fatto che, essendo il successivo albergo a Taormina, la si potrà visitare comunque  dopo cena o , al massimo, al mattino dopo.
In verità le due soluzioni sarebbero state equivalenti visto l’interesse dimostrato dagli ragazzi. Ma di questo si parlerà dopo.
Intanto Agrigento.
Gli studenti sono incantati dal fatto di constatare che i templi esistono davvero e non solo sui libri di storia e di storia dell’arte. In mancanza di una guida, non fornita dall’agenzia a causa del prezzo particolarmente vantaggioso del viaggio, i due docenti di lettere cercano di spiegare  come possono l’architettura e la storia dei monumenti. A parte la classe del prof. Caio, dimezzata dalle defezioni, e solo alcuni alunni, meno della metà  della prof.ssa Tizia,  tutti gli altri si sparpagliano per tutta l’area, ridendo, scherzando, fotografandosi in pose romantiche o scherzose, vistosamente disinteressati alle spiegazioni. Qualche alunno inusitatamente si lancia a fare ipotesi su archi e muretti e chiede anche spiegazioni del tutto inattese ma rincuoranti alla docente. La quale, ovviamente si precipita a disquisire sulle teorie avanzate dagli archeologi. Naturalmente l’alunno è già molto lontano dalla sua portata, interessatissimo a corteggiare la bella compagna di classe con la quale da alcuni mesi intesse pazientemente un rapporto amoroso curatissimo nei minimi dettagli.
Non si è appurato  se il prof. Caio abbia avuto maggiore successo con le sue alunne, tuttavia la mattinata si conclude davanti a poderose granite di limone consumate a nastro da tutti quanti, alunni e docenti.
 Dopo essere passati con totale indifferenza davanti ai resti ricostruiti di un colossale Telamone che, ormai a terra, ha smesso la sua millenaria funzione di reggere l’architrave del tempio di Ercole, gli studenti iniziano ad interrogare i docenti: quando ce ne andiamo? A che ora si mangia? Cosa dobbiamo mangiare oggi? Posso andare a compare i souvenir per mia madre? Che facciamo questo pomeriggio? Ci dobbiamo andare a Taormina? E via dicendo.
I docenti non hanno risposte per queste profonde ed esistenziali domande fortemente orientati alla cultura e alla conoscenza. Tuttavia cercano di sopperire alla loro ignoranza dicendo agli alunni che non temessero, che avessero un po’ di pazienza, e, in casi più estremi, che la smettessero di rompere l’anima.
Verso le 13.00 si fa ritorno in albergo che, naturalmente è molto lontano dal centro della città, defilato più verso la lontana periferia, tuttavia accogliente. Il pranzo dura pochissimo perché gli studenti provvedono a divorare con enorme velocità quanto viene loro offerto e subito partenza alla volta di Piazza Armerina per la visita alla villa del Casale.
Tale località , per chi non avesse mai visitato la zona, si trova esattamente al centro tra le province di Agrigento, Siracusa e Ragusa, in una parte  interna rispetto alla costa, immersa in una grande vallata dove si giunge dopo avere percorso i pendii dei monti Erei con un certo numero di curve . Naturalmente i pullman  impiegano un certo tempo a raggiungere la meta. Finalmente si arriva. Si cerca una guida non prevista all’interno del tour a causa del costo estremamente vantaggioso del viaggio. Quindi la si deve pagare. Prezzo richiesto 89 euro.
Ma sì, pensano i proff, un euro a testa e ci si arriva tranquillamente. Una guida che dia spiegazioni accurate e precise a proposito di questa splendida villa è quello che ci vuole per questi ragazzi.
Si entra. I mosaici sono tantissimi, molto belli e ben conservati, ricoperti da una tettoia in vetro e sormontati da passerelle che hanno il compito di non fare rovinare i resti dal passaggio dei turisti. Ci si mette tutti quanti in fila pronti ad ascoltare le parole della guida.
In un italiano molto approssimativo, la guida, gentile signora intorno ai quarant’anni vestita inaspettatamente da cowboy, comincia a sciorinare un incredibile numero di banalità, buone certamente per anziani turisti anglosassoni che poca dimestichezza hanno con la cultura classica, ma certamente ( è ovvio pensare ) non per gli alunni di un liceo.
Invece la donna miete un certo insperato successo, soprattutto quando mostra con evidente compiacimento i resti delle latrine comuni che a suo dire venivano condivise  allegramente da uomini e donne i quali approfittavano dell’occasione anche per conversare piacevolmente. Inutile sottolinerare il grande interesse  degli studenti per questi particolari della vita sociale romana.
La visita si conclude dopo un’ora. Subito dopo si riparte alla volta di Taormina dove si trova l’albergo prenotato dall’agenzia per le due notti successive.
L’itinerario prevedeva a questo punto la visita di Taormina o Acireale o Giardini Naxos. Vista l’ora si pensa di arrivare in albergo, cenare e andare dopo cena a visitare Taormina, in considerazione che il giorno dopo si prevede la visita di Siracusa.
Ma , come si può osservare consultando qualsiasi cartina geografica della Sicilia, Piazza Armerina si trova notevolmente lontana da Taormina che è quasi al limite con la provincia di Messina. Pertanto, arrivati in albergo alle 21.00 , dopo una certa accoglienza malevola del personale  che ci attendeva per le 20.00, si cena con una pessima pasta scotta e della carne velina vista la trasparenza della stessa. I ragazzi si lamentano, vogliono andare a Taormina, come promesso. Ma i due autisti sono stanchissimi e non se la sentono anche per il fatto che l’albergo non si trova affatto a Taormina bensì dietro il monte Tauro in cima al quale sorge la cittadella, esattamente dalla parte opposta e ai piedi del monte, proprio sul mare in località S.Alessio siculo.
Località sicuramente amena e confortevole per turisti estivi che siano andati esclusivamente per i bagni di mare e per riposarsi nella pace di un piccolo borgo. Ma sicuramente inadatti alle scolaresche in viaggio d’istruzione.
Le quali, in considerazione del fatto che ancora c’è tanto tempo all’alba, si organizzano per passare la notte: chi chiede ai proff di accompagnarli in una passeggiata freddissima sul lungomare, chi invece si asserraglia in un vicino bar, sempre con la docente a bere birra e mangiare gelati.
Ovviamente anche qui succedono liti e malumori tanto che i docenti decidono di fare rientrare tutti in albergo, dove però gli studenti improvvisano balere e bische clandestine sempre con accompagnamento musicale ad altissimo volume.
Anche stanotte si fa l’alba e l’indomani ci si alza con un certo ritardo .

Terzo giorno

Visita a Siracusa. Si parte verso le 9.30 da Taormina alla volta di Siracusa: 150 Km circa di pullman. Gli studenti hanno tutto il tempo di recuperare il sonno perduto. In pullman non si sente volare una mosca. Silenzio assoluto e meraviglia dell’autista abituato a ben altri viaggi. Tanto che confessa candidamente di non avere visto scolaresche così silenziose in tutta la sua carriera .
Verso le 11.30 arrivo a Siracusa e visita al teatro greco e alle Latomie.
Questa volta si decide che si può fare a meno della guida. I due docenti di lettere possono supplire alla mancanza. Infatti si dispongono a sciorinare tutto il loro sapere in fatto di cultura classica.
Giunti all’interno del teatro il prof. Caio tenta invano di sollecitare le conoscenze pregresse dei suoi studenti e studentesse in fatto di seconda colonizzazione ellenica, di vita sociale greca, di struttura delle rappresentazioni delle tragedie… A parte una decina di studenti che cercano di ripescare attraverso ricordi confusi, le risposte alle sollecitazioni, tutti gli altri si espandono per tutta l’area archeologica fotografando e facendosi fotografare, mangiando panini, bevendo bibite e sbuffando di stanchezza e di noia.
In particolare un gruppetto di ragazze dall’aspetto vistosamente provato dalla stanchezza continuano ad affliggere la prof.ssa Tizia con continue richieste: ma quando ce ne andiamo? Perché non andiamo a mangiare? Ma prof quanto dobbiamo stare ancora qui? Ma posso andare a comprare qualcosa nelle bancarelle?
A questo punto, considerata l’inutilità di insistere ancora sulla cultura classica, i proff decidono di abbandonare l’area archeologica e di recarsi a pranzo. Sono le 12.30 e il ristorante prenotato è sistemato provvidenzialmente accanto all’area archeologica. La visita è durata in tutto pochi minuti.
Si pranza naturalmente tra le lamentele degli studenti che si ribellano davanti all’ennesima pasta alla norma che avrebbe senz’altro fatto la felicità di ogni buongustaio che si rispetti , ma sicuramente non quella dei nostri alunni abituati evidentemente a ben altre raffinatezze.
A questo punto si deve decidere tra la visita di Noto o dell’isola di Ortigia originaria sede di Siracusa. Si decide per questa seconda opzione che permette anche di non rimettersi in pullman .  In particolare la prof.ssa Tizia aveva anticipato alcune notizie sulla visita all’isolotto, oggi ricco di palazzi barocchi e sede della bellissima cattedrale votata a S.Lucia patrona della città.
Gli studenti mostrano di essere molto interessati a questa visita. Infatti immediatamente si sguinzagliano da tutte le parti tranne che nei posti loro indicati. In particolare si guardano bene dall’entrare in chiesa anche solo  per dare un fugace sguardo alla struttura particolarissima di tempio greco trasformato in chiesa cattolica. Più che all’archeologia sono interessati al modernariato. Infatti si portano verso i vari negozietti di magliette, scarpe griffate e tecnologia varia. Evidentemente è di questo che sentono grandissima nostalgia che ora possono colmare con grande soddisfazione.
Verso le 18.00 ci si prepara a ripartire alla volta di Taormina. I famosi 180 Km sono sempre in agguato. Il confortevole pullman ci aspetta e bisogna andare.
Il personale dell’albergo chiede con una telefonata al prof. Caio, capogruppo, se gli studenti sono interessati ad una serata in discoteca. A questo punto le ragazze lanciano un sìììì   di gioia all’unisono. Finalmente si farà qualcosa di veramente interessante, pensano. Ma. I ragazzi dello scientifico, notoriamente più fichi e scafati sentenziano: sì alla discoteca ma solo se inizia dopo mezzanotte!!!
Naturalmente chiunque legga questo resoconto capisce che non è possibile  iniziare i balli in discoteca dopo la mezzanotte quando il giorno dopo si ha per meta un viaggio a Palermo, visita al palazzo dei Normanni con annessa cappella palatina, cattedrale e visita alla città, visita a Monreale, pranzo, visita a Segesta che si sarebbe recuperata andando verso Trapani dove alle 21.00 è previsto l’imbarco per Cagliari. In tutto 380 Km circa!
La discoteca è annullata. Dopo cena tutti a nanna. Così si stabilisce
Invece dopo cena gli studenti hanno pensato bene di organizzarsi delle piccole discoteche personali nelle camere dell’albergo. Pertanto anche quella notte iniziano i suoni e i balli. Solo gli interventi severissimi dei docenti riescono a mettere tutti a tacere. Verso l’una del mattino c’è un silenzio ma gravido di tensione. Ma ormai è fatta. Si parte l’indomani alle 7.30

Quarto giorno
Alle 7.40 si parte, come Dio vuole alla volta di Palermo. In pullman silenzio. Tutti dormono. Alle 11.30 i due pullman riversano gli studenti davanti al palazzo dei Normanni. Turbe di turisti attendono il loro turno per entrare. Anche i nostri studenti sono in coda. Dopo una mezzora di attesa entrano: il palazzo dei normanni si visita solo in parte, la cappella palatina è invasa da impalcature per il restauro. Non c’è guida. Non si fa a tempo a vedere quasi niente. In compenso l’antistante bar offre le più ghiotte prelibatezze della pasticceria siciliana. E’ lì che gli studenti passano la maggior parte del tempo a loro disposizione acquistando cannoli siciliani per sé e famiglie.
E’ già l’una passata. Che fare? Si potrebbe forse visitare la chiesa di Monreale. Meglio telefonare. La prof. Tizia telefona: la chiesa rimane chiusa dalle ore 13.30 alle ore 15.30. Che fare? Si può tornare dopo pranzo. Ma il pranzo dove si farà? Richiesto della cosa, l’autista risponde: traversa di Viale Strasburgo. Vale a dire dall’altre parte esatta della città.
Ora  chi non è stato mai al sud né in Sicilia in particolare, forse ignora l’entità del traffico cittadino. Ma Palermo in questo è davvero straordinaria: le sue strade sono sempre invase da un fiume in piena di auto che non si fermano mai, invadono tutti gli spazi e i pedoni sono per gli automobilisti solo dei fastidiosi ostacoli. Ritornare ad attraversare tutta la città dopo il pranzo non se ne parla neanche. E allora? Si va a pranzo con calma e poi si parte alla volta di Segesta. Visita al tempio, saltanto il teatro  per non fare troppo tardi, e poi verso Trapani.
Gli studenti salgono nei pullman alle 13.45 e ci si porta verso il ristorante prenotato. Attraversamento della città: tre quarti d’ora. Arriviamo alle 14.30.
Il locale incontra l’entusiasmo dei ragazzi: trattasi di una specie di pub con televisori a schermo piatto che lanciano musica a tutto spiano. Non siamo soli: un’altra scolaresca di bambini di scuola elementare si è già posizionata prima di noi in attesa di essere servita con le loro maestre. In tutto siamo 180 persone circa. Ci servono il pranzo alle 15.00, finiamo di mangiare alle 17.00. Però che buono!
Gli alunni si precipitano ai pullman alla volta di Segesta. Arriviamo nell’area archeologica alle 18.00 giusto in tempo per vedere il custode sbatterci in faccia il portone d’ingresso e dirci che quello è l’orario di chiusura. Preghiamo, supplichiamo, tentiamo di intenerirlo dicendo che due ragazze hanno bisogno del bagno: niente! Mai si è visto un siciliano dal fare così teutonico!
Non c’è nulla da fare. Bisogna rimettersi in viaggio. Due ragazze non ce la fanno più: devono soddisfare impellenti necessità fisiologiche. Non ci sono bagni in vista, non rimane che la campagna circostante.
Afflitti e sconsolati i proff.,  assolutamente indifferenti gli studenti, ripartono alla volta di Trapani.
Qui la prof. Tizia fa un ultimo, stanco, penoso tentativo di illustrare un po’ di storia greca , cartaginese e romana, indicando il famoso monte Erice ultima roccaforte della resistenza cartaginese alla conquista romana dell’isola.
Mancano due ore all’imbarco al porto di Trapani. Speranzosi gli studenti scorgono delle belle navi ormeggiate nelle banchine e scommettono su quale sarà la loro. Ovviamente nessuna di quelle.
In un angolo appartato del porto attende il agguato la stessa perfida nave container dell’andata.
Mesti e rassegnati, dopo avere fatto incetta di panini per il viaggio si avviano verso la nave. Alunni e docenti scendono dai pullman, salutano gli autisti, si dispongono in fila per l’imbarco. Silenzio.
Solo un alunno della IV F, certo Mattia, chiede al compagno che gli sta vicino: senti, ma tu lo sai  come si chiama quel monte?

Quinto giorno
Arrivo a Cagliari alle 10.30. Gli alunni scendono faticosamente dalla nave trascinandosi appresso tutto il peso del mondo.
Si avviano lentissimamente verso il molo dove i loro genitori trepidanti e in ansia li attendono felici.
Essi però continuano a camminare lenti, pesanti, stanchi e forse anche …annoiati.


Conclusioni

Alla luce di quanto esposto si evince che:
  • Gli studenti non hanno bisogno di un viaggio di istruzione ma solo di un viaggio;
  • Tale viaggio  evidentemente non ha nulla a che vedere con la scuola. Anzi questa è proprio un vero intralcio nei confronti delle  aspettative degli studenti;
  • I docenti non hanno alcun ruolo se non quello di fungere da pretesto perché  gli alunni ottengano il permesso da parte dei genitori a partecipare al viaggio;
  • Ovviamente di valenza culturale neanche a parlarne



Maria Rosa Giannalia