venerdì 7 agosto 2015

L'immondizia come paradigma della nostra vita?




L’ articolo di Melania Mazzucco ( La Repubblica di domenica 26 luglio 2015) dal titolo eloquente “Se questo è il volto di una capitale”, mi ha fatto pensare alla dimensione del degrado non solo di Roma ma di molte città e paesi italiani, piccoli e grandi.   La scrittrice, nell’articolo citato,  racconta  l’accoramento degli abitanti che vedono  l’insieme degli edifici, delle piazze, delle strutture antiche che provengono da una storia millenaria, deturparsi pian piano  ma costantemente. Vero è che nella storia degli uomini una certa quota di deturpamento fa parte della vita sociale stessa. Ma  si tratta di quel  deturpamento  connesso all’uso quotidiano e che rientra nell’ andamento della costruzione-disfacimento-ricostruzione e che è nell’ordine naturale delle cose.
Il grido accorato della Mazzucco che si sostanzia nella frase con cui apre l’articolo Che cosa ho fatto di male (per meritare questo)? ci mostra, invece, l’estrema drammaticità dell’impossibilità di  recupero e  di ripristino della passata bellezza di Roma. E’ quasi un  de profundis . Il tanto parlare di questo problema che si è fatto nei quotidiani e nei rotocalchi, dà anche la misura di una sofferenza di quella parte di cittadini che non si ritiene responsabile di questa devastazione.
Ma non è proprio così. Siamo tutti responsabili dell’ambiente in cui viviamo, urbano o naturale che sia, poiché tutti fruiamo in misura diversa di ciò che è pubblico. Forse Il degrado di Roma ha raggiunto livelli non più sopportabili, forse perché Roma è lo specchio del paese, fatto sta che si fa un gran parlare  solo adesso, di questo problema.

Ma ci siamo chiesti quante città vivono da molti decenni la condizione di Roma stessa? E quando mai se n’è data notizia dei quotidiani nazionali?
Ci sono città, nella penisola, che per degradazione non sono seconde a nessuna altra.

Anche nel degrado c’è forse una graduatoria: città più o meno degradate, in procinto di degradazione, quasi-degradate, degradate parzialmente, irrimediabilmente degradate.
Tra queste ultime annovero Palermo, mia città natale, o meglio, mia provincia di nascita, essendo io  nata in un piccolo paesino, a quasi sei chilometri dalla grande città, di nome Villabate  che ho visto crescere in questi ultimi quarant’anni almeno del triplo sia per il numero di abitanti che per i fabbricati.
Questa piccola cittadina ha la sfortuna di trovarsi a ridosso del territorio della grande città di cui è ormai diventata un' anonima periferia urbana insieme a molte altre frazioni che circondano la città a nord-est.  E' situata nell’importante snodo autostradale che immette nelle tre principali autostrade Palermo-Catania, Palermo –Agrigento, Palermo-Messina.
Tuttavia  Villabate ha sempre avuto  dignità di paese in quanto la sua genesi storica data al millesettecento  in seguito  all’inurbamento di un latifondo di proprietà di un abate di nome Agnello. Da qui, dunque, la toponomastica: Villa dell’abate, esitata in Villabate.
Un legame affettivo di più di mezzo secolo mi lega a questo luogo. Ed è di questo paese che voglio parlare.

Il paese si snoda lungo la vecchia strada provinciale per Agrigento,  ai cui lati sono sorte le prime case dei contadini che avevano nella coltivazione degli agrumi della Conca d’oro la loro ragione di vita economica e sociale. Il paese , nel corso degli anni, si è ingrandito per accumulo, senza mai un piano regolatore, senza un ordine che salvaguardasse l’ambiente meraviglioso dei “giardini”, dove nelle sere tiepide di primavera, il profumo della zagara era sentore di paradiso. 
Questo ambiente, invidia dei viaggiatori stranieri, vanto e orgoglio dei contadini, è stato piegato e violentato all’inurbamento senza che nessun amministratore segnalasse un abuso, perché, in mancanza di pianificazione generale, non si può parlare di abusi.
A mia memoria questo paese è stato sempre deturpato dalla spazzatura  che non necessariamente è collegata con gli abusi edilizi, ma, come questi, è sintomo di un idem sentire della comunità.  Ma se da una parte gli abitanti si sono sempre lamentati della sporcizia pubblica, dall’altro si sono guardati bene dall' intervenire a livello privato.  Eppure le case, al loro interno, sono state sempre splendenti per la pulizia meticolosa che le massaie provvedevano ( e provvedono) a fare quotidianamente  senza trascurare neppure i marciapiedi prospicienti.
Ecco, però  finiva qui l’interesse del privato cittadino per la cosa pubblica. Sempre a mia memoria, ho visto buttare cartacce, sporcizie varie, materiali di risulta e quant’altro nelle strade pubbliche  senza che qualcuno dei cittadini mai si arrischiasse a fare la benché minima osservazione. Era questo un modo ordinario di vivere. Nessuno si meravigliava, a nessuno veniva in mente che forse quello non era proprio un modo civile di stare in una comunità. Persino i bambini, rimproverati qualche rara volta perchè sorpresi a sporcare la strada, rispondevano con una tipica frase, diventata luogo comune, ad eventuali scarse osservazioni di qualche adulto dotato di senso civico: Vossia chi vùali? Picchì cca u’ sua è?  (Lei cosa vuole?Perché questa è proprietà sua?).  Questa frase non si sente più ripetere certamente, ma la condizione educativa che ci sta dietro era (e forse ancora è) paradigmatica di un mondo in cui ciò che è pubblico è terra di nessuno. Quindi si può devastare.
Ebbene, no. A questa domanda dobbiamo imparare a rispondere: sì, qui è mio ed è anche tuo, dei tuoi fratelli, dei tuoi cugini, della tua famiglia, della famiglia di tutti noi. E’ nostro e bisogna salvaguardare ciò che è nostro, esattamente come salvaguardiamo tutto ciò che ci riguarda dentro la nostra casa. L’ambiente che sta fuori dalla nostra casa, è casa nostra anche quello . Ci appartiene, apparterrà ai nostri figli cui lo lasceremo in eredità.
E’ di tutti noi anche il territorio di confine tra il nostro paese e quello della grande città, dove, pensandolo come terra di nessuno, perché zona industriale e trafficatissima, molti, tra abitanti e passanti, scaricano ogni giorno cumuli di immondizie. E mai nessuno si prende la briga di raccogliergli, né amministratori né semplici cittadini, i quali, anzi, si sentono confortati dagli enormi cumuli ad aggiungere carico al carico in un generale inferno di degrado di cui oramai non si rendono più neanche conto. E così si continua a vivere dentro una grande pattumiera senza neppure sentirne l’odore.

Questo è il punto di non-ritorno, l’irrimediabilità del degrado definitivo.