giovedì 31 dicembre 2015

La notte santa e la libertà di insegnamento

- Consolati, Maria, del tuo pellegrinare!
Siam giunti. Ecco Betlemme ornata di trofei.
Presso quell'osteria potremo riposare,
ché troppo stanco sono e troppo stanca sei.

Il campanile scocca
lentamente le sei.

- Avete un po' di posto, o voi del Caval Grigio?
Un po' di posto per me e per Giuseppe?
- Signori, ce ne duole: è notte di prodigio;
son troppi i forestieri; le stanze ho piene zeppe

Il campanile scocca
lentamente le sette.

- Oste del Moro, avete un rifugio per noi?
Mia moglie più non regge ed io son così rotto!
- Tutto l'albergo ho pieno, soppalchi e ballatoi:
Tentate al Cervo Bianco, quell'osteria più sotto.

Il campanile scocca
lentamente le otto.

- O voi del Cervo Bianco, un sottoscala almeno
avete per dormire? Non ci mandate altrove!
- S'attende la cometa. Tutto l'albergo ho pieno
d'astronomi e di dotti, qui giunti d'ogni dove.

Il campanile scocca
lentamente le nove.                                                        

- Ostessa dei Tre Merli, pietà d'una sorella!
Pensate in quale stato e quanta strada feci!
- Ma fin sui tetti ho gente: attendono la stella.
Son negromanti, magi persiani, egizi, greci...

Il campanile scocca
lentamente le dieci.

- Oste di Cesarea... - Un vecchio falegname?
Albergarlo? Sua moglie? Albergarli per niente?
L'albergo è tutto pieno di cavalieri e dame
non amo la miscela dell'alta e bassa gente.

Il campanile scocca
le undici lentamente.

La neve! - ecco una stalla! - Avrà posto per due?
- Che freddo! - Siamo a sosta - Ma quanta neve, quanta!
Un po' ci scalderanno quell'asino e quel bue...
Maria già trascolora, divinamente affranta...

Il campanile scocca
La Mezzanotte Santa.

È nato!
Alleluja! Alleluja!

È nato il Sovrano Bambino.
La notte, che già fu sì buia,
risplende d'un astro divino.
Orsù, cornamuse, più gaje
suonate; squillate, campane!
Venite, pastori e massaie,
o genti vicine e lontane!

Non sete, non molli tappeti,
ma, come nei libri hanno detto
da quattro mill'anni i Profeti,
un poco di paglia ha per letto.
Per quattro mill'anni s'attese
quest'ora su tutte le ore.
È nato! È nato il Signore!
È nato nel nostro paese!
Risplende d'un astro divino
La notte che già fu sì buia.
È nato il Sovrano Bambino.

È nato!
Alleluja! Alleluja!

Guido Gozzano-


Mi sono imbattuta per caso, girovagando sul web, in questa poesia di Guido Gozzano. E, mentre guardavo il testo, le parole e i versi  fluivano nella mia memoria insieme al ricordo gradevolissimo di me bambina seduta, insieme a tanti altri compagni, nei banchi dell'aula della quarta elementare nella scuola del mio paese. La maestra ci aveva detto di studiarla a memoria ed io, da scolara scrupolosa, la imparai per intero. La posso recitare ancora senza un tentennamento. Allora, erano gli annicinquanta, imparare poesie era un fatto didattico assolutamente naturale, come naturale era anche proporre poesie di contenuto religioso. Non solo le poesie di Gozzano ma quelle di Pascoli andavano forte in quegli anni  insieme a quelle di Carducci e di Renzo Pezzani. Anche la scuola ha le sue mode. Mi chiedo quanto impatto potrebbe oggi avere in una classe multiculturale questa stessa poesia. Il rispetto delle differenze culturali non incoraggia certo proposte come questa. Ma anche nella scuola primaria di quegli anni, gli addetti culturali del Ministero della Pubblica Istruzione, come allora si chiamava, non avevano il benché minimo dubbio sulla giustezza di tali scelte. La religione cattolica era la religione di stato e, come tale, perfettamente inserita nel panorama culturale di quegli anni. E questa poesia, come anche altri contenuti culturali, non erano oggetto neppure di discussione. Erano ritenuti perfettamente "legittimi" così come legittima era l'ora di religione la cui obbligatorietà nessuno metteva in discussione. Eppure io ricordo che nella mia classe quinta c'era una mia compagna, una ragazzina di colore. Eritrea per la precisione. Quella ragazzina imparava a memoria come tutti gli altri  questa poesia e i suoi genitori non andavano a recriminare dal direttore, come allora si chiamava il dirigente scolastico. E soprattutto non si sentivano offesi. Oggi le cose sono cambiate. E giustamente. A scuola nessuno può imporre l'obbligo di partecipare alle ore di insegnamento  della religione cattolica. Ci si può avvalere o no e questo non va a detrimento della valutazione degli apprendimenti degli studenti. Ma,  se la scelta di un testo non ha alcuna finalità di catechizzazione, mi chiedo allora se, nelle scelte didattiche cosiddette libere di oggi,  conti più il conformismo  o la libertà culturale dei docenti. 

Mi spiego meglio: una maestra o un maestro potrebbe anche oggi ritenere opportuno scegliere questa poesia di Guido Gozzano per i motivi didattici più diversi. Per esempio il contenuto di grande effetto sociale, il lessico estremamente semplice adoperato da Gozzano, il ritmo e la musicalità dei versi che facilmente si memorizzano, la possibilità di fare eseguire una parafrasi in autonomia agli scolari e tante altre efficaci esercitazioni. Sono tanti i motivi per cui una poesia o un  qualsiasi testo potrebbe essere scelto da un docente. Ora io mi chiedo: a parte il fatto che il contenuto specifico del testo in questione  sembra essere modellato   per illustrare con  precisione sociologica la condizione attuale delle centinaia di migliaia di immigrati che affollano il nostro ed altri paesi della comunità europea,  e che continuamente sono alle prese con problemi molto simili a questo di Maria e Giuseppe, raccontato nei versi di questa poesia, quale altra motivazione dovrebbe potere impedire l'utilizzo di un testo, di qualsiasi altro testo, che permetta un uso didattico finalizzato a scopi specifici ritenuti importanti da un docente? Dovremmo anche limitare tutta l'iconografia utilizzata per l'insegnamento della storia dell'arte, la gran parte della quale, specie quella relativa al medioevo, è di contenuto giudaico-cristiano? 

A meno che non si propongano contenuti che possano essere lesivi della personalità dei ragazzi, non vedo francamene come si possa impedire la libera scelta  didattica degli insegnamenti. Che senso avrebbe dunque l'articolo 33 della nostra costituzione che recita:  l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento? Questo potrebbe essere un valido spunto di riflessione. Riflettere su questo articolo della nostra costituzione, dovrebbe invogliare anche i più recalcitranti tra noi a penetrare lo spirito che ha animato i nostri padri costituenti nel momento in cui questi ultimi hanno concepito le leggi che ci governano. Mi sembra che ci sia , più in questo articolo, la garanzia del rispetto della libertà di insegnamento di qualsiasi docente sia accreditato dal ministero dell'istruzione per l’esercizio della professione, che in tutto il grande sproloquio mediatico pro o contro la scelta di questo o di quell'altro contenuto. E questo indipendentemente dal credo religioso o dalle idee politiche. Ora tutto questo gran parlare che si fa oggi circa la possibilità di offendere le sensibilità di molti o di pochi,  mi sembra quantomeno inopportuno e forse più conseguenza di conformismo ideologico che  espressione di autentica convinzione. Così come il volere ridurre a un pensiero unico, quello di matrice cattolica ( se qualcuno osasse imporlo), l'insegnamento delle discipline di studio nella scuola. Ciò che veramente importa è che gli studenti vengano dotati di strumenti culturali fin dalla scuola primaria, perchè essi possano percorrere un cammino di formazione completa che li metta nella condizione di sapere scegliere unicamente  secondo il proprio pensiero critico. E naturalmente solo la varietà dei contenuti proposti, come anche le modalità didattiche, concorrono espressamente a tale esercizio.

mercoledì 30 dicembre 2015

Incontro letterario organizzato dal CIDI di Cagliari









Il C.I.D.I.  di Cagliari organizza un incontro letterario per il giorno 13 gennaio 2016 presso il Liceo Classico "Dettori" di Cagliari.
Si tratta di una conversazione letteraria con due scrittrici , Savina Dolores Massa e la poetessa Bianca Mannu su un tema ricorrente in letteratura: Le relazioni difficili.

Le due scrittrici affrontano spesso nelle loro scritture tale tema e mercoledi 13 gennaio ne parleranno con noi.

Qui di seguito si può leggere una breve nota biografica delle due ospiti:


Savina Dolores Massa
  
Savina Dolores Massa è nata
e vive ad Oristano. Scrive poesie, racconti, romanzi, canzoni e testi teatrali. E’ amante della tradizione poetica orale. Con il romanzo Undici (edito dalla casa editrice Il Maestrale nel 2008) è stata finalista al Premio letterario Calvino. E’ fondatrice, assieme al musicista Gianfranco Fedele della Compagnia Teatro Jazz Hanife Ana con la quale ha messo in scena numerosi lavori (tra i quali il monologo E’ nata ‘na creatura, tratto dal romanzo Mia figlia follia). Collabora con l’Associazione pARTIcORali della sua città all’organizzazione di eventi culturali.
Gestisce il blog d’arte Ana la balena http://savinadoloresmassa.splinder.com/


Per i tipi di Maestrale ha scritto, in ordine cronologico:

  • Undici
  • Mia figlia follia                                
  • Ogni madre
  • Cenere Calda a mezzanotte   

Per Arkadia ha scritto:
 La cella di Gaudì (silloge di racconti di più scrittori)
Per  Caracò:
 Piciocas (silloge di racconti di più scrittrici)
Per CUEC:

Eros in Sardegna (silloge di racconti di più scrittori)     



Bianca Mannu


Nata a Dolianova (CA), vive e lavora  a Quartu Sant'Elena.  Abilitazione  Magistrale, poi laurea alla Facoltà di Magistero di Cagliari. Ha insegnato per quarant'anni nella scuola primaria, laureandosi anche in Storia e Filosofia.
Poi si è dedicata interamente alla scrittura.
Bianca è soprattutto una poetessa, ha esordito infatti con una prima una silloge di oltre 70 composizioni col titolo di Misteriosi ritorni di cui si è avuta una ristampa nel 2004.

  • Nel 2006: una nuova raccolta di  versi, Fabellae,  per Aipsa edizioni.
  • Nel 2010  viene editato il suo primo romanzo  Da nonna Annetta, per i tipi della casa editrice La Riflessione, Cagliari.
  • Nel 2012 pubblica una nuova raccolta di poesie dal titolo  Quot dies ,per Youcanprintedizioni, e  una raccolta di racconti Crepuscoli , per Booksprintedizioni
            E infine un romanzo breve dal titolo  Camilla, per Youcanprin.  
  • 2013 Tra fori di senso e Alluci scalzi (sillogi di poesia) per Youcanprint Edizioni.
  • 2014 Il silenzio scolora (poesie), per Mariapuntaoru Editrice e I racconti di Bianca, per THOTH edizioni

Sul Web è presente con un suo blog personale : http://verbiedi-verbi.blogspot.it/





martedì 22 dicembre 2015

Poesia o non poesia?



C'è in Vibrisse, il blog dello scrittore Giulio Mozzi, un interessante dibattito nato intorno ad una riflessione su questa questione:

Non se ne può più delle lamentazioni sulla marginalità della poesia (e anche del loro contrario)

by

I pareri espressi da  molti dei followers di questo blog sviluppano riflessioni parecchio articolate intorno a questo  e al più ampio tema di cosa rappresenta la poesia oggi e la bellezza che ne scaturisce. I pareri espressi sono estremamente interessanti e meritano un'attenta lettura per comprendere che la poesia anche in questo nostro tempo così complicato e , a volte, indecifrabile, offre uno spiraglio di godimento e di felicità.
Ne raccomando la lettura.

Qui di seguito l'articolo di Giulio Mozzi, il dibattito è qui

Vabbè, sto esagerando: io non ne posso più. Che la poesia non conti tutto sommato nulla nella vita sociale e civile del Paese, mi sembra una cosa ovvia. Non mi pare che Dante o Petrarca, per tacere di Leopardi e del Berchet, abbiano contato più che tanto – più che nulla – nella vita sociale e civile del Paese. Certo: guardiamo la storia d’Italia, e ci par di vedere una popolazione tutta compresa nei procomberò sol io (tanto per citare il peggio) e tutta intenta ad amoreggiare teologicamente e stilnovisticamente. Ma certo! Peccato che quella popolazione fosse l’un per cento, l’un per mille, l’un per diecimila della popolazione reale, della cui esistenza forse aveva qualche sentore, qualche vaga notizia, qualche rapporto ogni tanto. Oggi viviamo nell’alfabetizzazione universale, ma l’alfabetizzazione non è altro che alfabetizzazione: saper usare almeno al minimo indispensabile l’alfabeto; saper leggere le istruzioni per l’uso della lavatrice; saper compilare in Facebook uno status con la ricetta della parmigiana di melanzane (come la faceva la nonna, la mamma, ec.); e poco più. Notavo l’altro giorno, in uno studio pieno di gente laureata e postlaureata, tutta gente seduta davanti a dei pc e intenta a scrivere, che tutti furiosamente scrivevano usando un dito per mano: che è l’equivalente del tenere una penna come se fosse una vanga. L’alfabetizzazione porta all’alfabeto: non sta scritto da nessuna parte che se oggi metà della popolazione italiana è capace di comperare un libro (o prenderlo a prestito) e provare a leggerlo, perciostesso sia più sensibile alla poesia; o che o una quota maggiore (rispetto a un tempo) di popolazione sia sensibile alla poesia. No, no. E’ vero che Gabriele D’Annunzio vendeva vagonate dei suoi libri di poesia, ma D’Annunzio (allora) era come Fabio Volo (oggi): a prescindere da qualunque giudizio sulla qualità delle opere, tràttasi di autore-star che vende modelli comportamentali e di pensiero a un pubblico mediamente acculturato o aspirante ad acculturarsi mediamente. Che il divin Gabriele abbia cominciato dai libri e il buon Volo ci sia arrivato dopo, poco cambia.
Sono un lettore di poesia, lo confesso. Sono addirittura un compratore di libri di poesia: e talvolta divento matto per riuscire a comperare quel certo libro lì, che lo vendono solo presso il centro sociale occupato nei venerdì dispari dei mesi pari, tra le cinque e le sei di mattina, pagamento in talleri (o che lo pubblica l’Istituzione Solenne la quale, alla richiesta d’acquisto, risponde che loro i preziosissimi libri che stampano in limitatissime tirature li regalano, sì, li regalano soltanto: a un pubblico selezionatissimo: del quale io, volgare compratore, evidente non faccio parte, né posso aspirare). Sono un lettore di poesia antica, quattrocentesca, rinascimentale, barocca, addirittura sette-ottocentesca, e per di più contemporanea. Leggo poesia italiana, francese, inglese: dove ho un minimo di competenza linguistica, ché le traduzioni fanno quello che possono. Nella mia libreria ci sono più libri di poesia che romanzi e racconti, e soprattutto ci sono molti più libri di poesia contemporanea che libri di romanzi e racconti contemporanei.
Quasi tutto quello che so sulla scrittura, l’ho imparato leggendo poesia e leggendo quello che i poeti e certi critici scrivono o hanno scritto sulla poesia. L’intensità che cerco, nello scrivere, è l’intensità della poesia: la parola “intensità” è ingenua, ma spero mi si capisca. Non sono un poeta: non ho quella forza; anche se talvolta mi attento a scrivere in versi (non parlo di quelli scritti per gioco) e addirittura ho pubblicato due libri scritti in versi e tre libri tra le cui prose fanno capolino parti, sezioni, racconti scritti in versi. Un amico, recensendo uno di questi libri, ha generosamente scritto che io non sono un “prosatore”: sono un “versificatore”; ma si è ben guardato – giustamente – dal sostenere che io sia un poeta (vedi); perché i poeti sono bestie d’altra specie, forse d’altra natura.
Che la poesia sia irrilevante; sia marginale; che la poesia non conti (più) nulla; che la poesia sia soffocata dalla prosa; che la poesia si sia ridotta a essere una faccenda di conventicole; che la poesia si sia smarrita tra esperimenti paradossali fin nel nome di “poesia visiva” o “verbo-visiva”, “poesia sonora”, “videopoesia”, “poesia in prosa” o addirittura di “prosa in prosa”; che i poeti siano ormai una microgalassia di piccoli sistemi solari ciascuno contraddistinto da un’incomprensibile (o da una fin troppo comprensibile) poetica; che i poeti siano gentaglia che sta sempre lì a guardarsi, a spiarsi, a contendersi miserabili premietti, a contendersi gli inviti a festival più o meno internazionali e più o meno lussuosi o straccioni (perché ci sono anche i festival lussuosi, non crediate); che i poeti siano sempre lì a creare gruppetti e gruppettini, ciascuno avvinghiato alla propria pretesa rivista miserabilmente online, eventualmente associati in operazioni politicopoetiche di riconoscimento e recensionamento reciproco di rimbalzo e di sostegno: ma di tutto questo, vero o falso che sia (e non è del tutto vero né del tutto falso), che me ne importa?
La bellezza. Ah, la bellezza. Quando mi domandano che cosa cerco nelle opere inedite che quotidianamento scarico, leggo, scorro, scarto (e rarissimamente salvo per una lettura più approfondita, terminata la quale quasi sempre le scarterò), io rispondo: la bellezza. E tutti, dico tutti, quando dico questo, mi guardano straniti. La bellezza, eh sì. Mica l’aderenza a un genere letterario, o a una visione del mondo, o a una certa idea di letteratura, o alle esigenze del mercato (che, sia detto una volta per tutte: se le soddisfa da sé, le sue esigenze, senza che le case editrici possano farci nulla), o alla presenza di tutti i meccanismi narrativi giusti al posto giusto, o alla natura più o meno “di ricerca” o “sperimentale” delle opere, e così via: no, m’importa della bellezza, a me, e che in un’opera ci sia della bellezza me lo dice il mio corpo, semplicemente, perché per finir di leggere un’opera faccio tardi la notte o ci ho voglia di svegliarmi presto la mattina o mi dimentico di scendere alla stazione giusta (leggo molto in treno). Il mio corpo può sbagliarsi, ovvio. Ma se non mi fido di lui, di chi mi fido?
E la bellezza appare. La bellezza appare, qua e là, anche nella profluvie delle opere di poesia pubblicate dai centomila editori di poesia (l’Italia è un Paese di poeti che non leggono poesia, si dice: ma sarà anche un Paese di editori di poesia che non leggono ciò che pubblicano), anche nel pullulare del web, anche nel passaparola della Repubblica delle lettere, anche nei siti pretenziosi o non pretenziosi, la bellezza appare, talvolta, di rado, certo di rado – ma quando mai la bellezza è stata merce comune? Raramente, molto raramente. C’è stato qualche magic moment per la bellezza, nella storia umana: qualche.
La bellezza appare, e farà il suo effetto. Oggi sembra soffocata dalla massa delle produzioni insensate: è vero, la massa delle produzioni insensate copre, nasconde, invisibilizza; peggio: distoglie, deforma, mistifica. E’ forse peggio di quando una donna su cinque moriva di infezioni poco dopo il parto? No, è meglio. Questa è la modernità, o postmodernità, o ipermodernità, fate voi, ma questa è: teniàmocela stretta, teniàmoci stretti noi stessi per quel che siamo, ora, oggi.
Chi se ne importa, dell’irrilevanza della poesia. Mi importa la visibilità della bellezza. Proviamo a smettere di ragionare di poesia, e proviamo a ragionare di bellezza. Lo splendore della verità: ecco la bellezza. (Concetto vecchio, lo so: ma non ne trovo di migliori; anzi, non ne trovo altri, se non bassezze come l’eleganza, l’armonia, la bella maniera, la perfezione tecnica e simili). Lo splendore di un sasso, di un gesto, di una stanza vuota, di un odore di resina, di una visione angelica, dell’impronta di un corpo sul mio corpo, di una macchina perfettamente funzionante, di un bambino morto su una spiaggia, di mia madre immobile un istante dopo l’ultimo respiro, di tutto ciò che volete: lo splendore di ciò che più o meno fuggevolmente appare e sta nel mondo.
Non so se riesco a spiegarmi. E’ così difficile dire ciò che si crede di sapere (ma ci si può sbagliare) immediatamente, per intuizione.
Se avete letto fin qui, secondo me potreste leggere anche l’articolo: Che cosa faccio quando scrivo una poesia (brutta).
(Ah: è uno spinterogeno).

sabato 12 dicembre 2015

" Dolce per sé è il ricordo..."



E' ancora là  la casetta piccola, a due piani, dipinta di calce bianca con striature ingrigite dal tempo. L'abbiamo messo in vendita. E' in vendita già da alcuni anni ma non l'acquista nessuno. E' la casa dei miei genitori. Sta  in una vanedda, una viuzza come ce ne sono tante, nel mio piccolo paese, in un quartiere cui, non ho mai saputo perché, fu dato il nome di Tripoli. Ma fu un nome profetico perché il trascorrere fatidico del tempo ha restituito il senso a quel nome. Tanti magrehebini lo abitano adesso senza che la loro lingua si distingua dalla parlata della gente di là. Stessi suoni gutturali, stessa modulazione vocale, stesse parole , a volte. La lingua siciliana ha tante inflessioni arabe e, se udita a distanza, sfuma e si confonde con questa e questa con quella. Da tempo le inflessioni amalgamano quella gente in un'unica popolazione, senza differenze se non nei nomi.
 E' in questo posto che sono nata.
La mia casa  si apriva alla strada e quasi proseguiva in essa. La strada un tempo, nel mio tempo d'infanzia, non era un luogo diverso. Era la casa stessa, solo all'aperto. Non un giardino, non un cortile, ma proprio la casa stessa- solo priva del tetto- dove si andava, noi bambini a continuare la nostra vita di dentro. Il fuori era sinonimo stesso della casa, e indicava il suo luogo più  fresco, quando d'estate c'era un gran caldo e tutti non potevamo stare nel chiuso delle mura, dove non era neppure pensabile un gioco di movimento per me e i miei fratelli, noi che facevamo a turni intercambiabili gli yankee e gli indiani e ci rincorrevamo e ci lanciavamo i sassi col tirapietre.  La strada era la nostra casa anche d'inverno, nei tiepidi inverni siciliani, con le lame di luce nei gialli muri di tufo che a Natale ci facevano gustare l'effetto dell'affabulazione collettiva all'aperto con distribuzione di fette di limone col sale, in un giro di ragazzine vocianti e di madri affacciate all'uscio. C'era in quella casa un terrazzo con le tegole del tetto consunte per i troppi anni e ricoperte, a dicembre, da un fitto spessore di muschio. Quello era il muschio di Natale per me che andavo a sollevarlo , attaccato com'era fortemente alla creta, con la lama di un coltello.  Ce n'era tanto. Insieme ai miei fratelli lo sdradicavo quasi tutto. E dopo averlo fatto essiccare un po' al sole, tutto quel muschio diventava il tappeto erboso del nostro presepio. Andavamo poi alla ricerca di pezzi di sughero, più difficili da trovare. Ma l'effetto finale era bello: tutto quel sughero addossato alla parete della nostra sala da pranzo diventava case, stalle, botteghe dell'arrotino e del pescivendolo, piccole casette dentro le quali stavano a filare le figurine femminili del presepe e il ciabattino con il martello  e la scarpa in mano. E le stradine di piccola ghiaia dove, vicino alla grotta si collocava "u spavintatu ru presepiu" un pastorello con le braccia e le mani alzate in atteggiamento di grande meraviglia per l'evento della nascita del Bambino . Molto più difficile diventava la collocazione delle luci. Piccole lucine tutte colorate che dovevano andare ciascuna dentro ogni anfratto di sughero o dentro ogni casetta. Era lì che avvenivano  le sciarre: c'era sempre chi tra noi pestava il filo o non riusciva a districarlo o rompeva le lucine. Allora erano sequele di urla dei più grandi  e qualche scappellotto volava a filo di testa.
 Il presepio.
 Persino l'acqua, quella vera, mettevamo dentro una piccola vasca camuffata tutt'intorno dal provvidenziale muschio. Acqua che spesso faceva saltare la corrente precipitando nel buio più completo quel piccolo paesaggio, magari nel bel mezzo del pranzo di Natale.
Il pranzo non era quel trionfo di gola che oggi affolla ogni tavola. C'erano gli anelletti col sugo di carne e piselli, la pasta della festa, e i brocioloni ripieni di pangrattato, uvetta e pinoli. Ma il segno distintivo della festa c'era sempre: cannoli e buccellati. In tutte le tavole c'erano.
E quella nostra piccola casa ci conteneva tutti, nonni, mamme, padri, zii e cugini, in un vociare festoso e assordante al quale nessuno si sottraeva. La festa era  stare tutti insieme nella casa piccola che spesso si allargava nella strada . Bastava solo aprire la porta. E se qualche vicino passava, pure lui era invitato a partecipare a mangiare e a giocare con noi. La nostra piccola casa aveva, nel piano superiore , due piccole camere da letto con il soffitto dove un qualche imbianchino con vocazione d'artista aveva trovato il modo di dare un saggio della sua maestrìa: un dipinto con scene campestri e tralci di edera. E persino una casa di campagna con tanti alberi e tanto verde intorno, dove io mi rifugiavo immaginandomi avventure regali di principesse e principi, di re e di regine. Quella era la casa dei miei sogni, la casa che abitavo ogni notte, dove tra fughe di stanze e vasi di fior c'era una stanza tutta per me con le tende bianche alle finestra e un letto a baldacchino deve io dormivo da sola senza il fastidio dei fratelli e di mia madre che mi costringeva alle faccende di casa. Cosa che odiavo di più al mondo: non riuscivo a capire perché mai solo io, dei quattro figli che eravamo, dovevo aiutare la mamma a pulire, rigovernare, lavare i pavimenti e rifare i letti. Ecco, io questa  cosa qui non la volevo fare. Io volevo leggere e guardare la parete dipinta e immaginarmi principessa in mezzo alle mie stanze. Ero strenuamente sorda ad ogni rimprovero e la mia resistenza aveva quasi sempre la meglio.
Era in questa casa che noi bambini aspettavamo a lungo, nei pomeriggi delle domeniche estive, mio padre che ci prometteva di portarci al mare. Noi lo aspettavamo , ma quando la luce del sole lasciava la mano alla azzurra penombra della sera, perdevamo le speranze e uscivamo a giocare in strada con gli amici. Quelle delusioni preludevano ai pianti  e mia madre, infastidita dalle proteste nostre e dall'assenza del marito, sfogava spesso il suo malcontento facendoci rientrare alla svelta  e sbarrandoci l'accesso alla strada con il chiavistello. Spesso cenavamo senza di lui, spesso andavamo a letto senza vederlo né salutarlo. Ma tardi, ancora sveglia, mi riusciva di sentire i passi pesanti di  mio  padre che rincasava a notte fonda e qualche strillo di mia madre che si lagnava  di aver dovuto, la sera della festa, cenare da sola con i bambini. Non erano assenze colpevoli. Erano assenze necessarie. Lui, mio padre, il suo lavoro lo cercava così, nella piazza del paese, nella banchina. La banchina era  luogo dell'ingaggio e piazza degli scambi, sito privilegiato delle transazioni ma pure del libero ritrovo tra   uomini. Le donne non vi avevano accesso. Solo i maschi potevano esercitare questo loro diritto tacitamente riconosciuto. Anche le bambine non potevano frequentarlo, se non accompagnate dal genitore. Lui, mio padre,  mi portava qualche volta con sé. Ed io riverberavo l'orgoglio dell'accesso in quel luogo a me proibito , se sola. C'era un caffè, poco più di un chiosco coperto in realtà, dove gli uomini andavano a bere e a giocare a carte. Il bancone  aveva una vetrina ricoperta di dolciumi che variavano ad ogni stagione: cannoli, pasticciotti, iris con crema di ricotta, cartocci pieni di crema, d'inverno; frutti di martorana, dolcetti biscottati all'anice, pupi di zucchero per la festa dei morti in autunno; gelati di tutte le specie in primavera e in estate. Ognuno per una festa . Ognuno col suo turno di apparizione. Mi incantavo a guardare. Mio padre col suo sorriso appena abbozzato mi lanciava uno sguardo d'intesa e faceva materializzare nelle mie mani almeno uno di quei meravigliosi dolci.

E così, nelle mie sere di festa, quando lui non tornava a casa a saldare la promesse di una passeggiata , me ne andavo a letto delusa, ma non sconfitta. La mattina dopo, quando mi alzavo per andare a scuola, mio padre era già andato via da alcune ore, lo cercavo  e non lo trovavo più in casa. Ma sul grigio marmo del comò della sua camera da letto c'era sempre un pasticciotto per me.