lunedì 25 luglio 2016

Che me ne faccio del latino?

Nella Repubblica di domenica 17 luglio 2016, un articolo di Mariapia Veladiano ”Quella scelta al ribasso che alla lunga non paga”, fa riflettere i lettori sul calo di qualità dei licei italiani dopo la riforma che ha introdotto, nei licei scientifici, l’abolizione del latino come insegnamento curricolare, a favore di altri insegnamenti dimensionati più sugli aspetti tecnico-scientifici che su quelli umanistici. La Veladiano conclude la sua analisi dicendo che una ricerca di maggiore “leggerezza” della scuola italiana non può prescindere dalla qualità dei contenuti disciplinari. E in particolare afferma “ qui viene da pensare che non sia ancora avvenuta nella didattica del latino una rivoluzione come quella che ha felicemente rivoluzionato la didattica delle lingue moderne”.
Io vorrei prendere spunto proprio da quest’ultima affermazione per analizzare cosa si è fatto nella scuola e in particolare nei licei, da una ventina d’anni a questa parte a proposito dell’insegnamento del latino e del perché, a mio avviso, ci sia stato un vistoso spostamento degli studenti italiani, prima dai tecnici verso i licei e poi dai licei tradizionali a quelli riformati.
Inizio da quest’ultima questione. 
L’esodo che abbiamo conosciuto dagli istituti tecnici verso i licei, inizia intorno più o meno alla fine degli anni novanta, quando il diploma rilasciato a conclusione del corso di studi tecnici e professionali, non permetteva più l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro, così come era avvenuto tra gli anni ’70 e ’80, quando ancora la crisi economica non si era abbattuta con violenza sulle nostre attività industriali e aziendali.
Il diploma rilasciato dagli istituti tecnici, che era considerato, nella seconda metà del secolo scorso, una qualifica abbastanza importante, testimone effettivo di una competenza teorica e pratica  rispondente ai bisogni del mercato del lavoro, con il precipitare della nostra economia, perse progressivamente importanza poiché non più spendibile né nell’immediato né nel futuro.
Pertanto, una parte degli studenti che fino ad allora afferiva a questa tipologia di istituti, ritenne di dovere completare la propria formazione con una qualifica maggiore attraverso un regolare corso di studi universitari e il conseguente diploma di laurea; un’altra parte, forse la più consistente, abbandonò ogni velleità di ricerca di lavoro in linea con la propria qualifica e iniziò a cercare un lavoro qualsiasi, purché retribuito.
Indipendentemente dalla congruenza tra le preferenze personali e le scelte del corso di studi medi superiori, una buona parte di giovani continuò il proprio percorso formativo negli istituti tecnici, perché lo sbarramento nei licei, rappresentato dalla consistenza oraria dell’insegnamento delle materie umanistiche, veniva ritenuto sia troppo difficile sia non efficace nella prospettiva di lavoro.
E’ avvenuto che tali istituti tecnici e ancor più gli istituti professionali, avendo perduto la loro finalità formativa immediatamente spendibile, prestarono il fianco ad una svalutazione di quei corsi di studi in senso stretto e ad una maggiore praticabilità in senso lato da parte di quegli studenti che in un modo o nell’altro pensavano di dovere concludere col diploma di scuola media superiore la loro formazione scolastica.

Ed è a questo punto allora che una certa parte di studenti, magari sollecitati dalle famiglie che volevano a tutti i costi per i propri figli un diploma di qualità, iniziano a cambiare rotta, cercando nella frequenza dei licei quello status sociale e formativo che ormai scarseggiava negli altri istituti superiori. Ma qui naturalmente il barrage ai licei scientifici era costituito dallo studio del latino. L’insegnamento del latino in questi licei, non si è mai caratterizzato con un approccio alla lingua e alla cultura diverso da quello posto in essere nel liceo classico.
Diciamo che il curricolo caratterizzante del percorso liceale è stato centrato su due aspetti essenziali: l’insegnamento della lingua latina che, almeno nell’intenzione del legislatore, doveva essere finalizzata alla lettura diretta dei classici e lo studio della civiltà latina attraverso percorsi antologici.
Forse solo una questione di quota oraria dedicata al latino costituiva, di fatto, la differenza tra classico e scientifico. Meno preponderante è stata invece la quota-ore nei licei delle scienze umane e nel liceo linguistico, dove pure si insegna questa materia.
Ogni docente di latino sa quanto sia ostico il percorso di lingua e grammatica per gli studenti, basti, per questo, vedere gli esiti finali quadrimestrali della maggior parte di essi, anche se , di fatto, alla fine dell’anno, motu pede, molti studenti vengono ugualmente promossi alla classe successiva.
Ma quanto formativo rimane questo percorso? A detta degli studenti il latino è una materia inutile che fa perdere tempo, che costringe a spremersi le meningi in un esercizio tanto inefficace quanto vano, del quale molti di loro non afferrano la necessità.
A questo punto allora la domanda che si impone è: ma perchè iscriversi al liceo? Perché gli studenti non scelgono altri percorsi più consoni alla loro disposizione mentale e alle loro preferenze? 

Da una parte l’istituzione-scuola ha dato una risposta molto semplicistica e squalificante abolendo tout court il latino da alcuni indirizzi del liceo scientifico, con conseguente e  graduale svuotamento e svilimento della strutturazione generale di quell’idea di liceo, dall’altra non operando una vera e propria rivoluzione nella didattica del latino, di cui parla la Veladiano.
Sarebbe come dire che , per evitare gli incidenti automobilistici, dovessimo abolire le auto e andare tutti a piedi.

Ma in che modo avrebbe potuto darsi questa rivoluzione?
E’ questo il problema più spinoso e più difficile da affrontare e che , a mio avviso, né i docenti, né l’istituzione, vogliono e sanno affrontare veramente. Perché? Quali sono gli impedimenti che frenano tale rivoluzione? Uno solo e grandissimo forse: il cambiamento di mentalità e di prospettiva, il mettersi in gioco ogni giorno sperimentando, sulla base degli studi di didattica che pure sono stati fatti con grande perizia e coraggio da alcuni docenti in questi ultimi vent’anni ( cito qui solo una delle tante risorse disponibili in rete ).
Studi che non sono “aria fritta” per dirla con l’espressione che spesso viene utilizzata  da molte parti interessate a proposito della formazione. 
Ma soprattutto, mi chiedo,  perché i percorsi di formazione dei docenti sono così tanto trascurati? Eppure le istituzioni preposte hanno investito risorse umane ed economiche veramente cospicue in questi ultimi anni, ma la ricaduta è sempre, inesorabilmente, drammaticamente pari allo zero.
Qualcosa non va bene. 
Più di qualcosa: è l’idea stessa di scuola che lo stato non potenzia, investendo male  e  solo attraverso quei pezzettini, quei contentini, quei pannicelli caldi che sprecano solo risorse ma che non servono a nulla.

Altrimenti perché ancora oggi una buona parte dei docenti di latino si ostina a insegnare con protervia la declinazione di rosa-rosae, invece di presentare agli studenti quel grande, immenso e accattivante  patrimonio culturale rappresentato dalla lettura dei classici in una lingua che gli studenti possano comprendere? L’italiano, per esempio? E da lì partire per una riflessione a ritroso sulla cultura e sulla lingua che molte università straniere ci invidiano?
Per concludere, quindi, le “scorciatoie all’impegno”, di cui parla Mariapia Veladiano, non sono solo quelle degli studenti, ma di molti docenti e della scuola stessa che non è capace di ripensare se stessa nei termini di valorizzazione di ciò che c’è nel nostro patrimonio culturale, prima che nei termini di abolizione di ciò che è faticoso.


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