mercoledì 27 dicembre 2017

'A Tuvatura: terza puntata


di Giuseppe Perricone



   Queste erano orazioni che la madre gli aveva insegnato da bambino e si potevano recitare soltanto in raris­sime occasioni come gravi calamità naturali o per scon­giurare eventuali presenze malefiche soprannaturali.  E ora, secon­do Gaspare, si stava verificando la seconda delle due condizioni: Rosina era vittima d'i Spirdi!
    Il pover'uomo, con le lacrime agli occhi, trepidante per la sorte della figlia, si segnò e sommessamente prese a recitare:-
Unu: supra di Diu 'un ci pò nissunu.
Dui: i tavuli chi purtò Mosè d’u munti Saia (Sinai).
Tr:i i pirsuni d'à Santissima Trinità.- [1]
    Si fermò un istante come a voler prendere fiato e, in crescendo, con un tono di voce man mano più stentoreo, riprese:
Quattru: Evangelisti: Luca, Marcu, Giuvanni e Mattiu.
Cincu: li chiai di nostru Signuri Gesù Cristu.
Sei: i missi chi Diu dissi.
Sett:i i cannili c'addumanu in allirìa 'nnanzi alla Vergini Maria.
Ottu: cori d'Ancili.
 Novi: armuzzi giusti.
Deci: i Cumannamenti di Diu.
Unnici: i rai du suli.
Durici: i paroli d'à virità!!! [2]
   Le ultime frasi furono pronunciate con veemenza e rabbia.
   L'orazione sortì l'effetto sperato. Infatti Rosina sembrava tornata quasi alla normalità. Ora  il  suo corpo era scosso da singulti, teneva gli occhi e la bocca chiusi e calde lacrime liberatorie le inondavano il viso.
   Gaspare si chinò vicino a lei e per prima cosa, non senza una certa fatica, le liberò le mani che teneva ancora fortemente serrate alle traverse della sedia, poi, finalmente la tirò fuori dalla sua prigione.
   Quando la bimba fu liberata, anche lui si accasciò per terra. La prese in braccio e con lei stretta fortemente al petto rimase a lungo in quella posizione carezzandole i capelli e il viso e chiamandola dolcemente per nome. Ad un tratto il tocco leggero e delicato di una mano sulla spalla lo fece sobbalzare.
   - Papà...! Papà...! Che ha Rosina? Che le é successo? - Era     Ciccio, con ancora il coltello in mano; dietro di lui veniva Damiano col piccolo Andrea addormentato fra le braccia.
    Solo allora Gaspare si rese conto del tempo trascorso; infatti, osservando la candela accanto a sé, si accorse che ne restava ormai soltanto un mozzicone.
    Si sollevò gravemente da terra con la figlia che, anche se dormiente, non accennava ad allentare la stretta con cui gli si teneva aggrappata al collo.
   Quando si accorse che Ciccio stringeva ancora il coltello nella mano e che continuava a scrutare guardingo ogni anfratto della camera con atteggiamento timoroso e tuttavia di sfida, non poté trattenersi dal sorridergli. Gli si avvicinò e con uno strattone affettuoso lo strinse a sé. Notò pure  le guance rigate di pianto di Damiano che, impaurito com'era, cercava anche lui di assumere un contegno il più virile possibile.
    Gaspare era commosso. Li strinse teneramente a sé e lascian­do il residuo di candela a consumarsi in quella stanza, spingen­doli  con tenerezza, uscì di lì insieme a loro.
   Quella notte dormirono tutti nella grande stanza da letto che era perennemente illuminata dalla luce fioca di uno stoppino acceso sotto un quadretto della Madonna.
   Su disposizione del padre, i due ragazzi, dopo aver adagiato Andrea nel letto grande, portarono due materassi dalla loro stanza, li stesero per terra e vi si posero a dormire. Damiano, dopo avere smaniato per alcuni minuti, finalmente, fu avvinto dal sonno. Con la sua teneva stretta la mano del fratello maggiore, come a cercarne la protezione con quel semplice contatto. Ciccio, invece, rimase seduto sul materasso con le spalle appoggiate al muro e poté prendere  sonno soltanto poco prima dell'alba.
   Nel letto Rosina dormì in mezzo al fratellino minore e al padre al quale rimase abbracciata tutta la notte. Lui, Mastro Gaspare, invece non dormì affatto. Ogni qualvolta tentava di assumere una posi­zione più comoda la bambina riprendeva a lamentarsi nel suo agitato dormiveglia. Ma non fu solo questa la causa dell'insonnia dell'uomo. Molti pensieri gli si affollavano nella mente.    
   Mastro Gaspare, sebbene in linea di massima credesse  in ogni tipo di manifestazione del soprannaturale di cui é ricca la tradizione popolare locale, tuttavia era un razionale; era di quelli che prima di accettare qualunque tesi doveva prima cer­care di saperne quanto più possibile e poi  ricercarne una spie­gazione logica. Ma questo implicava dover consultare la figlia ed era l'ultima cosa che avrebbe voluto fare. Voleva evitarle il ricordo dell'avventura appena vissuta, anche nel caso, in verità alquanto improbabile, che l'avesse soltanto sognata. Ma come poteva essere stato un sogno? Neanche l'incubo più realistico avrebbe potuto far sì che Rosina s'imprigionasse da sola all'in­terno di quella sedia.
   La sua mente era assillata dai dubbi. L'unica cosa certa era che, per ogni evenienza, avrebbe fatto benedire la casa dal Parroco. Poi ripensò all' "ottimo affare" stipulato per acquistarla. Ecco perché i vecchi proprietari l'avevano ceduta a così poco prezzo. Sapevano che era infestata !
   Per circa otto anni quella casa era stata disabitata, ma, stranamente, in paese nessuno ne conosceva il reale motivo. Si era pensato che fosse stata abbandonata perché il pro­prietario che aveva dei figli sposati che abitavano in città, avesse preferito trasferirvisi pure lui per stare insieme a loro. Erano gente abbiente e possedevano diversi appartamenti, alcuni dei quali sfitti. Non avevano avuto alcuna necessità di vendere la casa del paese almeno fino a quando, venuto a mancare il vecchio padre, gli eredi non decisero di disfarsene.
    Questo era quanto si diceva in paese sui motivi che avevano indotto i proprietari a cedere la casa a Mastro Gaspare, il quale, invece, alla luce degli avvenimenti notturni di quegli ultimi giorni, aveva ormai se non la certezza perlomeno il sospetto di essere stato raggirato.
    Poi la sua mente tornò ai dubbi di prima. Come avrebbe potuto conoscere quanto era successo in quella drammatica nottata senza interrogare in proposito la figlia che ne era stata l'unica testimone?       Infatti, se la piccola risvegliandosi non avesse ri­cordato più niente, con quale coraggio le avrebbe riportato alla memoria il dramma notturno che aveva vissuto?                  
    Questi pensieri lo accompagnarono per tutta la notte, fino a quando non si accorse che era giorno fatto dalla luce che filtra­va dalla finestrella nel camerino di Andrea.
    Pian pianino scostò da sé Rosina e scese dal letto cercando di produrre il minor rumore possibile. Decise che quel giorno non si sarebbe recato al lavoro, avrebbe mandato al cantiere Ciccio, che già lo coadiuvava, con le istruzioni per gli operai, ma quando stava per svegliarlo pensò che si sarebbe rivelato un padre quanto meno insensibile se lo avesse fatto, considerato che neanche il ragazzo aveva avuto una nottata tranquilla. Infatti, ricordò di aver notato che fino a meno di un'ora prima era ancora sveglio. Vedendolo ora dormire serenamente, seduto sul materasso e con le spalle ancora appog­giate al muro, rinunciò all'idea.         
    Aveva appena finito di rivestirsi, quando sentì bussare alla porta. Era uno dei suoi operai, mandato dagli altri ad informarsi sulle cause del suo insolito ritardo e per apprendere  eventuali nuove disposizioni in merito al lavoro della giornata.
    Mastro Gaspare gl'impartì alcune direttive e gli disse che quel giorno non si sarebbe recato al cantiere né lui né il figlio perché aveva la bambina che stava poco bene, e che egli stesso doveva accompagnarla dal dottore, mentre Ciccio doveva rimanere a casa per badare agli altri.
    Congedato l'operaio, rientrò nella camera da letto dove si aspettava di trovare i figli ancora addormentati, ma si accorse che il grande non era più al suo posto. Infatti questi si era alzato, si era vestito ed era già intento a lavarsi.
     Gaspare lo raggiunse nel bagno e lo invitò a tornarsene a letto per recuperare il sonno perduto, ma il ragazzo insistette nella sua determinazione di recarsi al lavoro chè: - L'occhio del padrone ingrassa il cavallo.- disse col tono di chi sentendosi già uomo maturo ne ha anche il senso di respon­sabilità e il padre, fiero di lui, accondiscese al suo desiderio.
    Pensò che era meglio lasciare riposare Rosina ancora un po’, di svegliare Damiano e Andrea e mandarli da sua madre. Tutto questo per avere più libertà d'azione in casa. Doveva venire a capo di quella vicenda che stava rendendo impossibile la vita alla sua famiglia, anche se ancora non aveva la più pallida idea sul da farsi.
   Prima svegliò Damiano scuotendolo dolcemente per la spalla e poi, mentre questi si vestiva, preparò la colazione; poi prese in braccio Andrea e, per evitare che il suo frignare disturbasse Rosina, ancora addormentata, lo portò nell'altra stanza dove  il caffellatte era già pronto nelle scodelle.
   Consumarono la colazione in silenzio, dopo di che Gaspare aiutò il piccolo a lavarsi e a vestirsi, e rivolgendosi al più grande disse:
    - Damiano, ascoltami. Porta ‘u picciriddu dalla nonna e rimani con lui chè la nonna é anziana e non può stargli continuamente appresso. Mi raccomando.
    - Non ti preoccupare, papà, non lo lascerò un minuto da solo, puoi stare tranquillo.
    - E... senti...., un'altra cosa... Non dire niente alla nonna di quello che é successo stanotte, se é il caso glielo racconterò io stesso dopo.
    Li vide allontanarsi tutti e due tenendosi per mano.
    Ogni tanto ‘u nicu cercava di svincolarsi, per fermarsi o per correre verso qualcuno o qualcosa che aveva attratto il suo interesse lungo la strada, ma il fratello non gli lasciava spa­zio. Ogni volta che doveva trattenerlo da questi tentativi di fuga, Damiano si voltava indietro per guardare il padre rimasto davanti la porta di casa ad osservarli. Gli mostrava con quanta cura stesse ottemperando ai suoi obblighi di fratello maggiore.
    Gaspare non potè trattenere un moto d'orgoglio nei loro confronti. Era fiero dei suoi figli. Per la prima volta li vedeva sotto una luce diversa. Ormai Ciccio e Damiano non erano più quelli che fino a poche ore prima aveva considerato bambini. Erano due ometti autosufficienti che con molto senso di responsa­bilità cercavano di rendersi utili alla famiglia e di protegger­la. Ciccio lo aveva dimostrato la notte precedente, quando, armato di un semplice coltello era accorso in difesa del padre e della sorella, pronto a lanciarsi contro chiunque attentasse alla loro sicurezza, sebbene anch'egli fosse morto di paura. Quella stessa mattina aveva reso palese anche il suo attaccamento alla famiglia avendo voluto recarsi necessariamente al lavoro, nonostante il padre lo avesse consigliato di rimanersene a casa. 
    Damiano non era stato da meno. Terrorizzato anche lui, aveva dovuto infondere coraggio al fratello minore nel buio camerino di quest'ultimo e proteggerlo da qualcosa di cui nemmeno lui aveva idea. L'atteggiamento da adulto che aveva assunto nell'assicu­rargli con quanto scrupolo avrebbe accudito al fratello una volta in casa della nonna denotava che anche il suo secondogenito possedeva un senso della responsabilità non  comune per un ragaz­zetto di nemmeno dieci anni.
    Mastro Gaspare aveva veramente motivo di essere orgoglioso dei propri figli. Peccato che la loro madre, Donna Giacinta, non potesse vederli, anche lei ne sarebbe stata fiera.
    Rientrato in casa prese a rimettervi ordine. Rimise al loro posto i materassi su cui avevano dormito Ciccio e Damiano e, mentre era intento a rifare i loro letti sentì la vocina preoc­cupata di Rosina che lo chiamava dall'altra stanza.                                                                                                                                                   (continua …)





[1]  Uno, su Dio nessuno ha potere/ Due, le tavole che portò Mosé dal Monte Sinai/  Tre, le persone della santissima Trinità.
[2]  Quattro, gli Evangelisti: Luca, Marco, Giovanni e Matteo/ Cinque, le piaghe di nostro Signore Gesù Cristo/ Sei, le messe che Dio ha celebrato/ Sette, le candele che ardono allegramente dinanzi alla Vergine Maria/ Otto, i cori degli angeli/ Nove, anime giuste/ Dieci, i Comandamenti di Dio/ Undici, i raggi del sole/ Dodici, le parole della verità.

martedì 19 dicembre 2017

A Truvaura- Seconda puntata



di Giuseppe Perricone


Rosina lo osservava affascinata e pure un pocu scantata. Accortosi di ciò, lo strano ospite le rivolse un sorriso rassicurante e accattivante allo stesso tempo. La bimba, in quel modo tranquillizzata, ricambiò il sorriso. Appurato che il suo gesto aveva sortito l'effetto desiderato, il bambino la invitò con un cenno della mano ad avvicinarglisi, invito che lei accolse volentieri, infatti scese dal letto e andò a sederglisi accanto. 
     - Ciao!  - la salutò il bimbo – Ti scanti di me?
     - Ciao!  - ricambiò lei ed eludendo la sua domanda gli chiese: -  Cu sì? Chi sei?
     - Mi chiamo Angelo. E' da moltissimo tempo che sono in questa casa e che non vedo altri bambini della mia età. Sai, qui sto soltanto con dei vecchi che non mi permettono mai di lasciar­li. Solo uno é buono con me, un monaco, Frà Santo Spirito...  
     - Ma... da dove vieni? - lo interruppe la bimba e, prima che lui potesse risponderle, continuò – ‘Sti vecchi di cui mi parli chi sono? E... perché non te ne vogliono fare andare via?
     - Aooh! Rosina, miiih primura che hai. Quante cose che vuoi sa­pere! E meno male che prima ti scantavi di me! - poi, facendosi improv­visamente serio in viso, proseguì:- Non lo so... Non lo so se devo rispon­dere alle tue domande. Le mie risposte potrebbero preoccuparti più di quanto non lo fossi già all'inizio del nostro incontro.
     La bimba stette qualche attimo a meditare sulle ultime  parole di Angelo, ma subito la  curiosità ebbe il sopravvento sui suoi timori e riprese a insistere con le sue domande.
     Angelo cedette alle pressanti richieste di lei e, con titu­banza, riprese:- Come vuoi... Secondo te, dopo che si muore che succede?
     - Che succede? Ma lo sanno tutti quello che succede quando si muore! Se si é stati buoni si va in Paradiso, se cattivi all'inferno e se si é stati buoni ma si é commesso qualche pecca­to in Purgatorio.
     Alla candida risposta di Rosina, un risolino ironico si disegnò sul viso di Angelo.
     - Beh! - continuò questi - Una volta anch'io la pensavo così. E forse è anche vero, ma io ora, l'unica cosa che so é che di sicuro io non sono in Paradiso, forse in Purgatorio o all'Inferno, infatti dove mi trovo non sto affatto bene, in compagnia come sono di quei due vecchiacci. Per fortuna ogni tanto viene il Frate di cui ti parlavo prima. E' l'unico con cui mi trovo bene.
     - Ma... - s'intromise Rosina - Quando mi parli di Paradiso, Inferno o Purgatorio?  Che mi vuoi dire? Che significa?
     - Significa che io sono... morto o, almeno, così credo!
     Qui Angelo tacque un momento, come a volere assaporare l'effetto che le sue parole avevano prodotto sulla sua interlocu­trice. Infatti, questa era rimasta a bocca aperta per lo stupore; la rodeva un dubbio: che la stesse prendendo in giro? Comunque Angelo non le diede il tempo di reagire e continuò:- L'ultima cosa che ricordo di quando ero ancora in vita é che mi trovavo nel mio letto gravemente ammalato. Attorno a me c'era la mamma, papà, la mia sorellina che era sempre stata il bersaglio preferito delle mie monellerie, ...tu non immagini quanto mi sia mancata in tutto questo lunghissimo tempo. Vorrei poter tornare indietro per farmi perdonare da lei. C'era anche un prete e altre persone del vicinato. Poi ricordo di aver avuto un gran sonno e di essermi come addormentato per risvegliarmi subito dopo in questo posto dove ormai ho l'impressione di stare da un'eternità. Non so neanche quanto tempo sia passato da quando sto qui sotto.
     Nel dire questo accennò con la mano al pavimento sotto l'armadio e con tono grave, avvicinando la sua bocca all'orecchio di Rosina, come a  volere evitare che qualcun altro sentisse quanto stava per dire, aggiunse:- Voglio confidarti un segreto. Qui sotto c'é... un... tesoro! Ma tu....    
     A questo punto Angelo fu interrotto come da un ringhio che sembrava provenire anch'esso da sotto l'armadio.
     - Ora devo andare - disse con fare circospetto e impaurito - Si sono accorti della mia assenza. Ma prima di tornarmene da dove sono venuto voglio avvisarti. Per favore, qualunque cosa ti propongano rifiuta sempre. Non ho tempo per dirti di più, ma tu, ti prego, non accettare mai nessuna delle loro offerte, se mai dovessero fartene...
     Non aveva ancora finito di pronunciare le ultime parole quando,  come dal nulla, alle sue spalle spuntò un vecchio dagli occhi così rossi che sembravano tizzoni ardenti che sprizzavano scintille. Ma la cosa che più impressionò Rosina fu la sua espressione torva e malvagia.
     Il vecchio, con mossa repentina avvinghiò le sue braccia attorno al corpo di Angelo e, spingendolo in giù nel pavimento, ve lo fece sparire come attraverso un buco o una botola apertasi improvvisamente ai piedi dell'armadio.
     Rosina assistette a tutta la scena paralizzata dall'orrore, senza riuscire a muovere un dito in aiuto di Angelo.
     Quando questi scomparve alla  sua vista, il vecchio si volse a lei con fare mellifluo che voleva essere suadente e accattivante ma che, invece, lo faceva apparire  molto più malvagio e perfido di quanto non sembrasse già.
Il suono che venne fuori dalla sua bocca era molto più simile al ringhio di una bestia feroce che alla voce di un essere umano:- Carina, - ringhiò con tono sarcastico - vuoi venire con me? .... Potrai giocare col tuo amichetto.
     - Noo! Lascialo stare! Vai via!.... Ciccio... Damiano... Papà... Aiuto! - gridò Rosina, che finalmente era riuscita a sbloccarsi.
     A queste invocazioni, il vecchio, con una risata molto simile al ruggito di una belva, scomparve nel pavimento attraverso il quale prima aveva spinto Angelo.
     Fu a questo punto che accorsero Mastro Gaspare e i figli.
Da quella volta, per diverse notti, Rosina si coricò nel letto grande col padre. Poi, lei stessa una sera insistette per tornare a dormire nella propria stanza, con la segreta speranza di rive­dere Angelo e continuare con lui la conversazione così drammaticamente interrotta.
     Mastro Gaspare tentò di dissuaderla, ma la tenace insistenza della figlia lo costrinse ad accontentarla.
Per più di una settimana non capitò più nulla di partico­lare a parte i normalissimi scricchiolii prodotti dalle tarme nei mobili, tanto che Rosina cominciò a pensare di avere soltanto sognato Angelo e tutto il resto. Allo stesso modo presero a pensarla anche il padre e i fratelli. Ma ecco che una notte, quando tutti ormai avevano quasi dimenticato l'accaduto, vennero smentiti. Ancora una volta furono svegliati dalle urla di Rosina.
Da quando questa aveva ripreso a dormire nella propria stanza, aveva preteso che la finestra rimanesse completamente chiusa, perché la fioca luce lunare che proveniva da fuori produceva sulle suppellettili strani giochi d'ombre che le mettevano addosso una certa appren­sione, così che nella cameretta era il buio più pesto, ma Rosina lo preferiva.
Quando Ciccio e Damiano, subito svegli, seguiti dal padre si precipitarono nella stanzetta, Rosina non si sentiva più. Tutto sembrava in ordine... al buio.
     Mastro Gaspare pensò che la figlia avesse avuto ancora un incubo e che si fosse riaddormentata regolarmente. Tranquilliz­zato, sempre in silenzio, con la sola pressione delle mani sulle spalle dei due figli li invitò a tornarsene a letto.
     Mentre i due ragazzi ubbidivano, l'uomo si soffermò ancora per qualche attimo nella stanza e fu così che il suo udito perce­pì un flebile lamento proveniente quasi dal centro della cameret­ta. Tornò subito indietro e sommessamente chiamò la figlia:
     - Rosina...! Rosina...!   
     Non ottenne alcuna risposta. Si avvicinò allora al giaciglio  della bambina e tastandolo si rese conto, con sommo sgomento, che era vuoto.
     Con apprensione chiamò allora più forte:- Rosina...! Dove sei...? Rispondi a papà tuo...
     L'unica risposta ai suoi appelli era quel flebile lamento interrotto ora da qualche singhiozzo. Si volse verso la stanza dei figli maggiori e chiamò:- Ciccio...! Vieni subito qui e porta una candela accesa... E tu, Damiano vai nello stanzino di Andrea e resta con lui ché se dovesse svegliarsi, almeno ci sei tu a tenergli compagnia.
     Intanto che impartiva queste disposizioni, spostandosi a tentoni nella stanza, seguitava a cercare la figlia senza mai smettere di chiamarla. Si diresse verso il punto dal quale pareva avesse origine il lamento e quando fu quasi al centro della camera inciampò nella sedia che sarebbe dovuta trovarsi ai piedi del letto. All'urto seguì un grido che sembrava provenire dal pavimento proprio dove Mastro Gaspare si era fermato.
     - Rosina...! Figlia mia! - urlò anche lui ormai preso dal panico - Dove sei?
     - No! Via, andate via! - rispose la bimba urlando con quanto fiato aveva in gola.
     - Sono io, papà tuo! Non c'é nessun altro!
     Ciccio comparve sull'uscio; con la sinistra teneva un cande­liere di metallo su cui era infissa una candela accesa e nella mano destra stringeva un coltello a serramanico. Il ragazzo, spaventato dalle grida del padre e della sorella in particolare, si era fatto la convinzione che tutto quel trambusto era provoca­to da qualcuno introdottosi fraudolentemente nella stanza di costei. Aveva quindi ritenuto opportuno armarsi per difendere a qualunque costo le vite dei congiunti ritenuti in mortale perico­lo.
     - Papà! Chi é... ? Che succede...? Dov'é questo cornuto che lo voglio ammazzare con le mie mani!!! - gridò.
     - Zittuti. - gli gridò il padre - Posa la candela a terra e vai anche tu nel camerino coi tuoi fratelli ché sento piangere 'u picciriddu ...
     Ciccio non accennò minimamente ad ubbidire al padre, ma, fermo dov'era, prese a guardarsi intorno con circospezione, pron­to a lanciarsi, coltello alla mano, contro qualunque estraneo gli si fosse parato davanti.
     Gaspare gli andò incontro, gli strappò la candela dalla mano e con uno spintone lo spinse bruscamente fuori. Bastò la fievole luce della candela perché, finalmente, l'uomo scoprisse con sgo­mento dove fosse finita la figlia. Praticamente, questa si trova­va imprigionata all'interno della gabbia formata dalle gambe e dalle traverse della sedia. Gli occhi spalancati all'inverosi­mile, quasi fuori dalle orbite, erano fissi in modo innaturale in un punto indefinito della stanza, la bocca spalancata emetteva ora una specie di sibilo molto acuto.  Aveva il respiro affannoso e irregolare. Le nocche delle dita erano biancastre per la forza che la bimba metteva nel serrare le mani attorno agli staggi della sedia.

     A quella vista Mastro Gaspare si bloccò esterrefatto. Temet­te che la figlia, per lo scanto, avesse perso il senno. Non sapeva che fare, conscio com'era che in tutto quello che stava capitando alla sua bambina non c'era niente che potesse essere spiegato in modo razionale. Poi gli sovvennero alla mente i durici paroli da virità, le dodici parole della verità.
                                                                                                                       (continua...)

sabato 16 dicembre 2017

EVENTO: Scrittori e scritture"




Ieri, venerdì 15 dicembre 2017, nella bella cornice della biblioteca comunale di Quartu Sant’Elena, Maria Rosa Giannalia ha conversato con Gianfranco Bognolo sul libro di Italo Calvino “ Le città invisibili”. 
La conversazione, come d'abitudine in questi incontri, è stata intervallata dalle magnifiche letture di Dario Cosseddu, capace di visualizzare, attraverso le parole dell'autore, le scenografie delle città prescelte per l'itinerario seguito nell'esposizione e la drammaticità dei dialoghi tra Kublai Kan e Marco Polo, personaggi dell'opera.




 Interessante l’analisi condotta sulla struttura combinatoria dell’opera e sulla innovativa concezione del lettore all’interno dell’opera aperta. Il pubblico è intervenuto, con osservazioni di spessore, sulle forme e sul  significato che la narrazione assume nel panorama nella letteratura contemporanea.

L’evento di venerdì 15 dicembre 2017 conclude la rassegna letteraria ”Scrittori e scritture” organizzata dall’Assessorato alla cultura del comune di Quartu Sant'Elena.












                                                                       












mercoledì 13 dicembre 2017

'A Truvatura: prima puntata

  


                                                                          

 Apro oggi, in questo mio blog, una sezione etichettata " I CUNTI" che sarà dedicata ad un tipo particolare di narrazione. 
   I cunti, nella tradizione popolare siciliana, erano fino a non molti anni fa, i racconti orali, rigorosamente in dialetto, che, specialmente i nonni, raccontavano ai bambini, durante le serate invernali, quando, dopo cena ci si sedeva  attorno o’ cufularu, il braciere, cioè,  che scaldava l’unica stanza dove la famiglia si riuniva per mangiare e, in mancanza dei mezzi tecnologici , tipo la televisione o il computer, di cui oggi disponiamo, per passare qualche ora insieme. 
  Il fascino di questi cunti era affidato alla capacità di affabulazione degli anziani, che, in questo contesto, rappresentavano i soggetti privilegiati del divertimento dei nipoti e di tutti componenti della famiglia i quali spesso si alternavano in questo tipo di intrattenimento. 
   I cunti in Sicilia, come in tutto il sud, rappresentavano un vero e proprio genere letterario orale che prevedeva precise regole in fatto di trama, intreccio e protagonisti.
   I cunti più seguiti e amati erano quelli che narravano le vicende di spirdi e diavuli capaci di affascinare soprattutto i bambini per l’alone di mistero che contenevano e per la stimolazione dell’immaginario collettivo conferito proprio dall’uso rigoroso dei tòpoi (luoghi comuni) condivisi.
  Iniziamo con un cunto raccolto e trascritto in lingua italiana da Giuseppe Perricone.
Lo pubblicheremo a puntate con cadenza settimanale.




Nella foto: 'u cufularu ( piccolo museo del Castello di Castelbuono  di Sicilia)




La foto è stata fornita dall'autore del racconto e inserita col suo consenso.


'A truvatura  
di Giuseppe Perricone


Prima puntata


Un detto che la gente ripete spesso con tono interrogativo all'indirizzo di qualcuno arricchitosi tanto improvvisamente quanto inaspet­tatamente é:
- Ma chi truvò 'a Truvatura? [1]


Ai giorni nostri viene di solito ripetuto con ironia, a volte anche con sarcasmo e altre ancora con sospetto, quasi a volere intendere che si nutrono seri dubbi sulla liceità della provenienza di tali improvvise ricchezze. Fino a qualche tempo fa, invece, non era così che era intesa quest'espressione. Allora, quando anco­ra il Magico e il Soprannaturale facevano parte del quotidiano almeno nelle convinzioni della gente comune, quanto ora si considera irreale, frutto della suggestione, superstizione o, peggio ancora, soltanto volgare ciarlataneria, era ritenuto una normale manifesta­zione di "presenze" o di fatti che sebbene non si riuscissero a spiegare empiricamente, tuttavia esistevano e accadevano.

- 1870 A.D. –

   Mastro Gaspare Lo Monaco, era un bell'uomo sui trentacinque anni, alto, biondo, robusto, occhi cerulei, insomma, un tipico normanno di Sicilia. Giovanissimo era rimasto vedovo di Donna Giacinta e, nonostante la giovane età, era padre di quattro figli, tre maschi e una femmina. Il più grande di loro, Ciccio, aveva circa sei anni,       Damiano, il secondogenito, quattro, Rosina due e Andrea, il più picciriddu, circa sei mesi. Donna Giacinta purtroppo era morta di parto alla nascita dell’ultimo figlio.
   Benché fosse stato molto innamorato della moglie, tanto che il rimpianto di lei non lo abbandonò mai, dopo quasi un anno dalla sua dipartita, Gaspare si risposò, ma solo perché aveva necessità di qualcuno che si occupasse dei bambini mentre lui era al lavoro.
 Anche questa unione durò poco, infatti, circa quattro anni più tardi, ristò ancora vidovo.
Qualche mese dopo questa seconda vidovanza, ebbe modo di concludere un buon affare accattando una casa che da anni non era più abitata.
A quei tempi, Mastro Gaspare era uno dei pochi in paese a possedere più di una casa; ciò era dovuto al fatto di essere uno dei mastri muratori più richiesti e canosciuti sia in paese che nel circondario, Palermo compresa.
La spesa non fu eccessiva rispetto al reale valore dell'immo­bile. Era in pieno centro. L'ingresso principale infatti dava direttamente sulla piazza del paese e il secondario, sul retro, in una stradina che dopo breve tratto si concludeva in campagna.
La casa aveva quattro càmmare tutte comunicanti; le prime tre erano perfettamente allineate e dall'ultima di esse si trasiva nella quarta tramite un ingresso che si apriva nella parete di sinistra. In quest'ultima cammara era stato ricavato uno stanzino per il cabinetto. Alla destra di ognuna delle prime tre c'era un cammarino.
Gaspare, dopo avere apportato alla casa alcune riparazioni resesi necessarie doppo tanti anni di abbandono, vi si stabilì con la famiglia. Adibì la prima cammara, quella che dava direttamente sulla piazza, a soggiorno-sala da pranzo e il cammarino adiacente a cucina; la seconda era la sua cammara da letto col cammarino che fungeva da stanzetta per il piccolo Andrea; la terza stanza era occupata dai due figli più grandi, Ciccio e Damiano e nel relati­vo stanzino venivano riposti gli attrezzi da lavoro. L'ultima era quella di Rosina. L’arredamento della stanza era costituito da un lettino posto subito a sinistra entrando, un pesante armadio a due ante, un tavolinetto appoggiato alla parete di destra, proprio sotto una grande finestra con la grata, e, ai piedi del letto, una sedia, sulla cui spalliera la bimba, prima di coricarsi, riponeva i vestiti che aveva indossato durante il giorno.
Era da circa un mese che la famiglia Lo Monaco dimorava nella nuova abitazione quando una notte furono tutti bruscamente svegliati dalle grida terrorizzate di Rosina. Solo Andrea, il picciriddo, continuò a dormire placidamente.
Non appena Gaspare si fu reso conto che quelle urla proveni­vano dalla stanza della figlia, saltò giù dal letto e vi si precipitò come una furia. Ciccio e Damiano erano già lì che cercavano vanamente di consolare la sorella. Ma questa continuava a urlare disperata e solo quando avvertì la presenza del padre, senza smettere di piangere e stringendosi a lui, as­sunse una espressione rassicurata. Infatti, sentendosi ora al sicuro, prese a inveire con parole apparente­mente sconnesse in direzione della base dell'armadio:
- Tinni vai ora? Ti scanti r’u papà? Brutto vigliacco, fai acchianari arreri a Ancilo! (1)
Gaspare immaginò subito che la figlia aveva "visto" qualcosa o qualcuno che … "non apparteneva a questo mondo".
Portò la bambina nel proprio letto e invitò gli altri figli a riprendere il sonno così bruscamente interrotto e per tranquil­lizzarli, li convinse che la sorella aveva fatto un brutto sogno.
Quando i picciotti si misiru a letto, l'uomo chiuse la porta della loro stanza e con fare persuasivo chiese alla bimba di cuntaricci (2) l'esperienza che aveva appena vissuto, cosa che lei fece subito.
Già da qualche notte la bambina veniva destata da strani rumori che sembravano provenire dall'armadio. La paura la costringeva a rintanarsi sotto le coperte malgrado la curiosità, prerogativa principale dei bambini, la spingesse a verificarne l’origine.
Quella sera, invece, con un grande sforzo di volontà riuscì a vincere la paura che la attanagliava. Non appena quei rumori si fecero risentire, la sua prima reazione fu la solita, ma notando che gli scricchiolii non accennavano a diminuire d'intensità, facendosi coraggio abbassò lentamente le coperte fino a lasciare scoperta la testa e, pronta a ricoprirsi subito al primo accenno di "peri­colo", lentamente la sollevò dal cuscino. Ma, visto che la spalliera della sedia coperta dai suoi vestiti le occludeva la visuale della parte inferiore dell'armadio, fece leva sui gomiti e si sollevò fino a ritrovarsi seduta in mezzo al letto.
Solo grazie al chiarore lunare che filtrava dalla finestra soc­chiusa riusciva a intravedere il contorno dei mobili. Fu così che Rosina guardando in direzione dell'armadio indo­vinò i contorni di una forma umana accovacciata ai piedi di esso. Stranamente un misterioso alone, pur lasciando il resto della camera nella consueta penombra, prese a circondare quell'appari­zione fino a renderla completamente visibile e chiara.
In prossimità del pesante mobile, seduto sul pavimento a gambe incrociate stava un bambino che dimostrava di avere pres­sappoco la stessa età di Rosina. L'abbigliamento lasciava suppor­re che appartenesse a una famiglia piuttosto agiata, infatti indossava una candida camicia abbottonata fino al colletto bordato di fine pizzo; un paio di calzoni corti di colore blu gli coprivano le gambe fin poco sopra il ginocchio e notò pure che non portava scarpe ma solo un paio di calzettoni anche essi bianchi.
I capelli, biondi e lisci, ben pettinati con la riga a sinistra gli incorniciavano il bel viso rotondo, dai tratti regolari.

                                                                               (continua)


[1] Che ha trovato la Truvatura(?

[1] Che ha trovato la Truvatura(?

domenica 26 novembre 2017

Elena Ferrante "L'amica geniale". Qualche riflessione sul testo


La foto viene da qui

Indubbiamente Elena Ferrante è una scrittrice che sa il fatto suo.
Che questo libro abbia avuto tutto il gran successo di pubblico e di critica, dalla sua prima edizione nel 2011 fino ad oggi, dopo tutte le sperimentazioni in fatto di narrativa praticate in Italia, è tanto incredibile quanto inaspettato. Credo forse per la stessa autrice.
Questa la trama: due ragazzine Lila e Lenù, appartenenti alla Napoli dei quartieri  popolari, percorrono insieme la loro adolescenza, non dissimile da quella di tante altre loro coetanee del rione. Lila, figlia di uno "scarparo", è dotata di un'intelligenza fuori del comune per una ragazzina nata e vissuta in un rione proletario di Napoli, e per questo viene presa a modello di vita e di personalità dalla più fragile amica Elena, chiamata in famiglia Lenù, anche lei dotata di ottime qualità intellettuali, ma sicuramente senza la forza di carattere dell'amica. Le due ragazzine, dopo un primo percorso di studi elementari in comune, prendono strade diverse: Lila sposa un ricco ragazzotto del suo rione che le permetterà di accedere al benessere materiale, mentre Lenù, sostenuta dalla sua maestra Oliviero, continuerà a studiare sia alle scuole medie sia al ginnasio. La vicenda percorre gli anni a cavallo tra due decenni: anni cinquanta e anni sessanta del novecento. Siamo nella fase della ricostruzione economica di cui, nel rione napoletano si sentono echi molto vaghi. Non c'è stata ancora la riforma scolastica del sessantadue: Elena, la protagonista, frequenta la scuola media e  studia il latino. Una scuola non riformata che presentava, allora, due percorsi differenziati -scuola media, appunto, e avviamento professionale- che si escludevano a vicenda, anticipando alla prima adolescenza la scelta del futuro percorso di studio o di lavoro.
Insomma, questo ambiente che la protagonista ci descrive è quello operaio, dove ancora però le persone hanno una propria collocazione  identitaria nel bene e nel male: i comportamenti descritti, infatti, non prescindono dal sopruso della camorra infiltrata in quel tessuto sociale. E nonostante tutto, la protagonista, narratrice in prima persona, ce la fa ad affrancarsi da quel mondo cui la tengono avvinta i legami affettivi e familiari. E' lei , infatti, proprio Elena, "l'amica geniale" che dà il titolo al libro. Anche questa è una gran bella trovata  strutturale, poiché, durante la lettura, tutto lascerebbe supporre il contrario, che  la genialità cui allude la narrazione non sia di Lenuccia ma di Lila.
E' però la costruzione del testo che stupisce il lettore e riesce ad avvincerlo alle pagine.
Come funziona questo testo? L'autrice si è sicuramente avvalsa di tutta la tradizione letteraria delle narrazioni popolari a partire dalle antiche "fabulae milesiae"della tradizione letteraria greca, per gli intrecci delle vicende, per finire ai feulleiton  della narrativa popolare ottocentesca. Il testo scorre veloce senza gli scarti temporali così praticati dalla narrativa contemporanea, senza neppure tanti dialoghi  che creino un ritmo sostenuto e sincopato, così caro a molti scrittori nostrani. Semplicemente è una narrazione che ha un ritmo tranquillo dove la parte narrativa prevale sulla descrittiva e sulla dialogata, ma avvince il lettore, perché è affabulazione di Lenuccia con i suoi lettori, è il suo punto di vista.
Per questo, "l'amica geniale" è un romanzo abile, costruito a tavolino con molta cura, per un pubblico vasto e semplice che richiede solo di essere intrattenuto. E l'autrice, da scrittrice attenta ed esperta, questo dà al suo pubblico: un intrattenimento che non richieda impegno né faticosa partecipazione costruttiva  né al testo né alla vicenda, un pubblico abituato a praticare più i social che la  lettura dei libri. 
Con un occhio attento alla scrittura e l'altro al marketing.

giovedì 16 novembre 2017

SINFONIA DI GUERRA A CAPORETTO


di Giovannino Contini



Tra-ta-ta-ta il mostro sputa fuoco
Dalla collina lancia le sue fiamme
Non smette di sbuffar neanche un poco
Con le roventi lame spacca gambe.
Al soldato italiano squarcia il cuore
La testa salta assieme al suo fucile
Tra-ta-ta-ta che orribile rumore
Il corpo brucia come in un fienile.
E cade trafitto sui compagni
Inzuppati di sangue, che macello!
Afferràti nella morsa della morte.
Tra-ta-ta-ta che maledetta sorte !
Ammassati in un infernal budello
Senza sparare un colpo con le armi!
Pace soldati,…………..BOOM !!!
Pace, pace… BOOM!!! BOOM!!!

Corso di scrittura poetica

Inizio da questo momento a postare su questa pagina i lavoro dei miei allievi del corso di scrittura poetica tenutosi alla Biblioteca Comunale di Quartu Sant'Elena.
Da ottobre  a novembre 2017 per sei settimane ci siamo intrattenuti nella bella cornice della stanza di lettura a leggere poesie e a scrivere versi.
Lo so, è stato troppo poco il tempo che abbiamo passato insieme, ma abbiamo potuto assaggiare delle piccole delizie poetiche tratte dai versi di autori contemporanei e della tradizione letteraria italiana.
Mi piace , adesso, qui in questa pagina dedicata ai miei allievi, dare un saggio delle competenze da loro raggiunte in un breve lasso di tempo.
Ringrazio tutti per avere voluto partecipare e per aver voluto condividere  con tutti ciò che avete imparato a fare.
Iniziamo con un sonetto" ironico e irriverente" di Mario Albertazzi


domenica 12 novembre 2017

Alle montagne della follia


Ieri, nella bella sala della biblioteca comunale di Quartu S. Elena, ha avuto luogo il quarto incontro della rassegna SCRITTORI E SCRITTURE . Questa volta Massimo Spiga, conversando con Elisabetta Randaccio, ha presentato il romanzo di fantascienza-orror di H. Ph. Lovecraft Alle montagne della follia" accompagnato dalle letture di Dario Cosseddu. 

Come sempre, il pubblico ha partecipato con grande interesse. 
Si ringraziano Massimo ed Elisabetta che hanno condotto la conversazione e Dario che, con le sue letture partecipate, ha reso ancora più interessante la serata.
Ringraziamo anche l' apprezzabile e apprezzata  dedizione del personale della biblioteca che non ha mancato di arredare  la sala con magnifiche orchidee.
Pubblichiamo qualche foto 














L'immagine può contenere: 1 persona, persona seduta

sabato 28 ottobre 2017

"L'Amor che move il sole e l'altre stelle"


Incontro con Dante









Nella bella e accogliente atmosfera della biblioteca comunale  di Quartu Sant'Elena, venerdì 20 ottobre Gianfranco Bognolo ha intrattenuto il pubblico con il suo commento del trentatreesimo canto del Paradiso, intervallato dalle letture di versi scelti ad opera di Dario Cosseddu.



Il pubblico è accorso numeroso, come del resto è accaduto per tutti gli altri incontri che sono stati organizzati nell'ambito della rassegna SCRITTORI E SCRITTURE.
E' stato davvero un pomeriggio interessante e gradevolissimo e il pubblico, attentissimo per tutta la durata della presentazione, ha partecipato con domande particolarmente mirate al dibattito che segue ogni nostro incontro. 

Le parole di Dante  hanno dato occasione per affrontare temi anche molto attuali, il senso della religiosità, per esempio, il percorso dell'uomo e i suoi valori in questa nostra società tanto lontana dalle suggestioni dantesche, e tuttavia sempre alla ricerca di risposte esistenziali per colmare quel "vuoto" che ogni uomo cerca di scacciare con riempitivi tanto materiali quanto inconsistenti. 

Insomma abbiamo concluso che oggi è necessaria tanta più bellezza di quanto pensiamo di aver bisogno. E la bellezza, Dante ce lo insegna, è un'ardua conquista.


martedì 24 ottobre 2017

Vecchiaia: volti e risvolti

Mi ha sempre indotto a riflettere la visione di gente anziana incontrata per strada o in posti pubblici o ancora all'interno della mia stessa famiglia.
Finché sono stata giovane non ho mai seriamente pensato che l'età del crepuscolo sarebbe fatalmente arrivata per me e che anch'io ero parte di quel mondo in cui tutti- tutti- facciamo lo stesso cammino.
Quando, per caso, questa idea mi attraversava i pensieri, evitavo di inciamparci e cercavo di scavalcarla velocemente. Non mi attardavo mai a spenderci su qualche riflessione.
Guardavo agli anziani della mia famiglia: mio padre è andato via troppo presto perché fosse interessato dalla sindrome della vecchiaia. Il suo percorso verso la fine è stato breve. Nel momento in cui si rendeva conto che il suo tempo era per concludersi, si è spento. Non si è accorto della perdita.
Mia madre è rimasta per molti anni senza di lui. Le sono rimasti i figli e i nipoti. Il rapporto con la morte non l'aveva sconvolta del tutto: ha saputo accettare la perdita poiché apparteneva ad una generazione che con la morte si era incontrata diverse volte e sapeva che doveva succedere, che sarebbe successo. Passò il resto dei suoi anni partecipando in silenzio alla vita dei familiari, godendo degli affetti di cui  è rimasta circondata e del rispetto che i figli e i nipoti le hanno tributato in forza di una educazione che poneva al massimo livello del sistema valoriale, la famiglia. Certo la solitudine era per lei la condizione quotidiana ma non era la solitudine dell'abbandono, piuttosto quella della mancanza di  interessi propri, venuta meno l'esigenza cui aveva votato tutta la sua vita: l'accudimento familiare e l'educazione dei figli.
Se paragono la sua vita alla mia , adesso che l'età che ho raggiunto mi avvicina per contiguità a quella della sua vedovanza, vedo quanta e quale differenza ci sia stata tra il suo modo di essere e il mio. Appartengo ad un'altra generazione, ma ci separavano in fondo solo ventotto anni. E mi scopro a chiedermi, in qualche sera come questa, quando mi fermo a riflettere, accantonando tutti gli interessi, o pseudo tali, che mi sono creata dopo il mio pensionamento,  quanto la mia vita attuale possa dirsi appagante e arricchente, quanto il mio mondo  possa essere considerato pari al suo in quanto ad affetti e ad appagamento.
Appartengo a quella generazione dei giovani del sessantotto che pensava di potere rivoluzionare il mondo; che presumeva che non dovesse più essere consentito interessarsi  e circoscrivere il proprio mondo solo alla famiglia; che fosse giusto fare solo tratti di strada insieme, quando interessi, ideali, sistemi valoriali, potevano incontrarsi; che fosse giusto, viceversa, separarsi allorché l'intesa iniziale avesse perso consistenza; quando cioè, non ci si fosse più identificati in uno "stare insieme" senza parole e senza comunanza di vedute.
Appartengo a quella generazione di donne che ha investito molto sull'idea politica della vita privata e sul significato sociale del proprio lavoro. Ed ho considerato, insieme a tantissime altre compagne, che fosse buono e giusto l'impegno per la realizzazione dei propri progetti di lavoro col dare ad essi priorità.  Pensavamo, molte di noi,  che in questo risiedesse la realizzazione della nostra vita.
Poi.
Poi il tempo è passato troppo in fretta.
Del lavoro che mi ha pervaso di passione,  quel lavoro che ho tanto amato, in cui credevo di avere trovato la chiave di volta per dare una forma accettabile e soddisfacente al mio percorso di vita, non è rimasto che qualche brandello sporadico, cui ogni tanto mi abbarbico per saggiarne la consistenza. E' una fallacia. E' un vuoto che lascia la constatazione che , forse, tanta utilità, tanto valore, tanta affettività non erano come io li vedevo. Che la fatica di vivere non si scardina impegnando la propria mente in problemi pratici da risolvere, in "cose da fare". La fatica quotidiana del vivere, rimane sempre e tutta lì. Ci attende quando dismettiamo il nostro assiduo e totalizzante impegno e dietro ci aspetta un vuoto che a volte trascende qualsiasi altra cosa. Gli affetti non riescono a colmarlo: i figli sono andati per la loro strada, non hanno più bisogno di noi. E questa cosa giusta e naturale però ci dispiace un po'. Ci fa sentire inutili e fuori dalle loro vite. 
Semplicemente è così che va. 
Non abbiamo il diritto a crucciarcene. 
Dobbiamo imparare a bastarci.
E quando non siamo più appetibili per il mercato dei consumi volontari, rischiamo di diventare facili prede dei consumi indotti con ferocia da una società che non ha più tempo per noi.