mercoledì 10 gennaio 2018

A Truvatura – Quinta puntata

di Giuseppe Perricone

   Non aveva bisogno di saperne di più. Temeva che la sua intromissione in quell'ambiente che probabilmente era stato tea­tro di chissà quali nefandezze avrebbe procurato a lui e alla sua famiglia guai maggiori di quelli già sperimentati.
   Se mai avesse avuto dei dubbi sulla veridicità dei racconti della figlioletta, ora non ne aveva più. Era tutto vero. Se non voleva perderla nessuno del suo nucleo familiare doveva rimanere un giorno di più in quella casa.
   Riammattonò la stanza e quel giorno stesso, raccolte le cose di prima necessità, si trasferì in casa della madre dove fin da quella stessa notte dormì con la famiglia.
   Nel giro di una settimana Mastro Gaspare traslocò definiti­vamente nella dimora che aveva abitato precedentemente, anch'essa di sua proprietà e questa che lasciava la mise in vendita speran­zoso di concludere l'affare nell'arco di pochissimi giorni.
   Confidava nel fatto che una casa come quella, centrale, con due accessi e ad un prezzo minore del suo reale valore (la vende­va allo stesso prezzo d'acquisto, senza considerare le riparazio­ni che vi aveva apportato a sue spese) avrebbe allettato non pochi acquirenti. Ma, inspiegabilmente, senza che né lui, né i figli, né la madre, cui non aveva potuto fare a meno di raccon­tare i fatti accaduti, avessero fatto parola ad alcuno di quegli avvenimenti, in paese si cominciò a sussurrare che Mastro Gaspare metteva in vendita la casa perché infestata dagli Spiri­ti. Questa voce rendeva molto più arduo il compito ai sensali incaricati dell'affare.
   A rendere più ardua la vendita della casa contribuiva il fatto che all'epoca era molto difficile trovare qualcuno in grado di disporre della cifra necessaria ad un tale acquisto.
   Passati circa sei mesi nell’infruttuosa attesa di un acqui­rente, Mastro Gaspare decise di provare a darla in locazione.
   Fu a questo punto che si fece avanti Don Gaetano Arcoleo in qualità di affittuario, attratto dall'esiguità del canone d'af­fitto.
   Don Gaetano era un uomo sui quarantacinque anni, alto, magro, buon lavoratore. Era molto autoritario nei confronti della moglie e dei sei figli, quattro maschi e due femmine, convinto com'era che il modo più sicuro d'impartire loro la buona creanza rimanesse la severità, mai poca. Infatti, era convinto che solo così la sua autorità di pater familias poteva continuare ad essere riconosciuta. Comunque i suoi modi bruschi e autoritari, in effetti, nascondevano un amore sviscerato per ogni componente della sua famiglia, in modo particolare per Adelina, la più piccola dei figli, che aveva otto anni, molto cagionevole di salute e con una malformazione congenita alla gamba destra che la costringeva a zoppicare. Don Gaetano soleva sostenere che pur di procurare il massimo del benessere alla propria famiglia era disposto a vendere anche l'anima al diavolo.
   La moglie di Don Gaetano, Donna Agatina, era un donnone di circa quarant'anni che pesava almeno il doppio di lui, mora coi capelli crespi che la facevano sembrare una mulatta, era infatti so­prannominata 'a Nivura[1].
   A parte Concetta che essendo la più grande dei figli, dici­annove anni, aiutava la madre in casa, i quattro maschi, Bartolo, Nino, Peppino e Giovanni, coadiuvavano il padre nella conduzione di un piccolo appezzamento di terra coltivato ad agrumi che avevano in affitto e quando avevano completato i lavori stagiona­li in quel terreno prestavano la loro opera come braccianti presso terzi. Tuttavia, per quanto il padre coi figli si ammaz­zassero di fatica, riuscivano a malapena a sbarcare il lunario, considerando pure che all'epoca dei fatti il salario di un brac­ciante era meno di un terzo di quello di un muratore; i ragazzi poi venivano pagati ancora meno.
   La famiglia Arcoleo, fino ad allora aveva vissuto in una stamberga di due stanze, dai muri zuppi di umidità, in un vicoletto nei pressi della casa sfitta di Mastro Gaspare. 
   Mastro Gaspare, per mantenersi la coscienza a posto, si sentì in dovere di mettere Don Gaetano sull'avviso di quanto avveniva la notte in quella casa. Gli confessò che il vero motivo che lo aveva costretto ad abbandonarla erano le strane "presenze" che la notte "disturbavano" la figlia e che tutto ciò, presumibilmente, era da attribuire all'esistenza, sotto il pavimento dell'ultima stanza, di una Truvatura. Perciò, se, nonostante i suoi avverti­menti aveva ancora voglia di abitare in quella casa, stesse attento per la piccola Adelina che aveva la stessa età della sua Rosina.
   - Ma come - rispose Don Gaetano - un uomo come voi crede a queste superstizioni? Io non ho mai creduto né alle Truvature, né agli Spirdi né a nient'altro. Credo solo in Dio, la domenica vado a Messa e sono a posto. Non ho paura di niente! Non mi scanto dei morti, … Mi scantu r’i vivi!.- concluse con una risata.
   Senza perdere tempo in eccessive formalità, i due uomini si misero d'accordo e già all'indomani, in un solo giorno, gli Arcoleo traslocarono nella nuova abitazione. Infatti, non ci volle molto a trasportare le poche fatiscenti masserizie di loro proprietà.
   La nuova abitazione sembrò conferire loro un nuovo status sociale. Cominciarono col vestirsi in modo più decente e, neanche un mese dopo i vicini assistettero al primo degli avvenimenti che in seguito avrebbero dato adito a molte illazioni. Due stràscini[2] carichi di mobili e di masserizie nuove si fermarono davanti alla casa, dove scaricarono tutto e se ne ripartirono carichi del vecchio ciarpame che fino ad allora aveva svolto le funzioni di mobilio.
   Non era trascorso un mese da questo avvenimento quando in paese si seppe che Don Gaetano era divenuto proprietario della casa di Mastro Gaspare e, nei mesi successivi, pure del terreno di cui era affittuario, di un altro appezzamento di terra adiacente al primo, di altre tre case che aveva dato in affitto e di una stalla sul retro della casa, visto che ora possedeva anche un cavallo e un mulo per il calessino e il carretto che aveva intanto comprato. 
   Nell'anno che seguì gli Arcoleo erano divenuti agiati pos­sidenti. Ai primi si erano aggiunti altri terreni coltivati ad agrumi. Ormai Don Gaetano e i figli si recavano in camoagna non più per lavorarvi, ma per controllare l'operato dei braccianti al loro servizio.
   Cosa era successo? A cosa era dovuta quell'improvvisa ricchezza?
   Ogni volta che qualcuno cercava di farlo pronunciare sulle cause che avevano prodotto un tale repentino cambiamento nelle condizioni della sua famiglia, Don Gaetano lasciava cadere il discorso e andava via, oppure intimava seccamente al suo interlo­cutore di farsi gli affari suoi. Tutto ciò naturalmente dava maggiore adito alle dicerie che già circolavano in paese: Don Gaetano stava forse sfruttando la Truvatura cui Mastro Gaspare Lo Monaco aveva rinunciato per paura di perderci la figlia?  
   Nonostante le evidenti ricchezze acquisite in quell'ultimo anno, gli Arcoleo non erano invidiati da alcuno, poiché tutti in paese erano convinti che prima o poi qualche sventura si sarebbe abbattuta in quella famiglia quale "pegno" dovuto per lo sfrutta­mento della Truvatura.
   Quanto inconsciamente Don Gaetano riservò alla piccola Ade­lina l'ultima stanza della casa, quella il cui pavimento nascondeva presumibil­mente la Truvatura?
   Alla moglie, che ammetteva apertamente di credere a quanto si diceva in giro su quella casa e che perciò era contraria a che Adelina dormisse in quella camera, rispondeva: - Ma credi che se veramente esistesse la minima probabilità che Adelina, la mia prediletta, corresse il più piccolo pericolo la lascerei dormire in quella stanza?
   Ed era in buona fede!
   Sì, forse nel più profondo della sua mente, senza rendersene conto, sperava che esistesse veramente la Truvatura in quella casa, magari che fosse vero quanto si diceva in proposito, a parte ovviamente il fatto del "pegno".
   Che cosa era successo?
   Quando si trasferirono nella nuova casa, Don Gaetano e i figli erano impegnati con dei lavori di ristrutturazione nel terreno di cui erano affittua­ri. Avevano deciso, previo il consenso del proprietario, di sostituirvi la coltivazione dei limoni con quella dei mandarini.
   Qualche settimana dopo il trasloco, durante questi lavori in campagna, Don Gaetano era alle prese con un tronco, ormai privato di tutti i suoi rami, che opponeva una tenace resistenza al suo sradicamento. Decise di scavare con la zappa tutto intorno al ceppo per cercare di liberarne le radici.
   Ad un tratto, da quello scavo vide comparire un pezzo di stoffa; sembrava il lembo di uno straccio. Si chinò e cercò invano di tirarlo fuori. Infatti, lo straccio era ancora troppo sepolto nel terreno per esserne tratto con facilità.
   Continuò a scavare e dopo un po’ si rese conto che quello che a prima vista sembrava soltanto uno straccio, era, invece, un fagotto che a guardar meglio si rivelò essere quel che rimaneva di una vecchia divisa militare, il cui colore originariamente doveva essere stato bianco. Probabilmente era una vecchia divisa borbonica.
   Incuriosito, l'uomo l'afferrò per quella che doveva essere stata una manica e fece per sollevare il tutto, ma si accorse subito che era troppo pesante per essere soltanto un semplice involto di vecchi stracci. Quella vecchia divisa avvolgeva qual­cosa di solido e … pesante.
   Don Gaetano decise di prendersi qualche minuto di riposo e intanto soddisfare la curiosità che lo strano fagotto gli aveva messo in corpo. Si sedette ai piedi di un albero lì vicino, con le spalle appoggiate al tronco e prese ad allargare quei vecchi pezzi di stoffa fino a scoprire l'oggetto che vi era avvolto. Era un vecchio tegame di alluminio privo di manico.
   Quando l'uomo ebbe completamente allargato gli stracci che lo ricoprivano, il vecchio recipiente si trovava capovolto, con il fondo rivolto verso l’alto.
   Dopo pochi attimi di esitazione Don Gaetano rivoltò il tegame nel verso giusto e .... una cascata di monete d'oro si riversò per terra dal suo interno. Non credette ai propri occhi. Gli mancò il respiro per lo stupore.
   Che ci faceva lì quel tesoro? E chi lo aveva nascosto? E quando?
   C'entravano forse i briganti che fino a pochi anni avanti agivano in quelle campagne? Infatti, dopo l'annessione del Regno delle Due Sicilie al nascente Regno d'Italia, quella zona era divenuta teatro delle imprese di una banda di Sanfedisti costitui­ta da disertori dell'esercito borbonico che si erano dati al brigantaggio e che infierivano, in prevalenza, su reparti isolati dell'esercito piemontese e su quelle ricche famiglie della zona che collaboravano con gli invasori.
   Dopo avere imperversato per parecchio tempo in quel territo­rio, la banda venne distrutta in seguito ad una cruenta battaglia con i Piemontesi, decisi ormai a debellare il brigantaggio in tutto il meridione d'Italia e imporre il loro ordine.
   Di quella battaglia se ne parlava ancora.
   Ebbene, Don Gaetano pensò che il tesoro da lui trovato probabilmente era il bottino accumulato dai briganti e nascosto prima che fossero distrutti. E, se così era, in quel terreno poteva esserci nascosta ancora altra refurtiva dei banditi.






[1]  “La Nera
[2]  Lo “strascinu” era un carro con quattro ruote, le due anteriori più piccole delle posteriori, lungo anche cinque o sei metri e senza sponde laterali ed era trainato da uno o più cavalli. A differenza del carretto, più piccolo, con due sole ruote e le sponde, aveva la cassetta su cui sedeva il conducente.

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